PREFAZIONE Bruno Callieri/L’INEFFABILE ESPERIENZA DEL SIMBOLO/Emilio Garroni, “Simbolo e linguaggio”/Umberto Galimberti, “Il simbolo: orma del sacro”/Francesco Saverio Trincia, “Riflessioni sul simbolo in, e oltre, Freud”/Marco Innamorati, “La rimozione del simbolo”/Giorgio Caviglia, “Simbolo ‘vero’/simbolo ‘falso’: il dilemma clinico del simbolo diabolico”/Angiola Iapoce, “Il tempo affettivo del simbolo”/LE METAFORE DELLA PRESENZA/Maria Ilena Marozza, “La clinica tra modello e metafora”/Enzo Vittorio Trapanese, “Le due metafore istitutive della psicoterapia”/Luigi Aversa, “Le figure etiche dell’esperienza analitica: identità, alienità, alterità”/Paulo Barone, “‘Pensare dialetticamente e non dialetticamente a un tempo’. Quindi ‘rompere’ (con) questo stesso tempo”/Stefano Catucci, “Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare”/L’ESISTENZA E L’ARTE DELLA CURA/Paolo Francesco Pieri, “Il paradigma dialogico nella conoscenza e nella cura psicologica. Considerazioni sul pensiero di Mario Trevi”/Amedeo Ruberto, Roberto Manciocchi, “La forza teorica del complesso. Modernità e specificazioni”/Mauro La Forgia, “Prospettive cliniche dell’intenzionalità”/Vincenzo Caretti, “La solitudine del curante, la scissione mente-corpo e il deficit della simbolizzazione”/DIALOGO CON MARIO TREVI (a cura di Luigi Aversa)
A Mario Trevi, la figura più significativa dello junghismo italiano, dobbiamo la profonda revisione critica del pensiero di Jung, del suo innatismo archetipale e di un certo suo sostanzialismo; ma soprattutto cogliamo sempre più la sua meditata e convincente attenzione a valorizzare l’individuazione (la Selbstwerdung) di fronte alla mente neuronale e alla gruppalità emergente, e ci sentiamo presi a fondo dalla sua teoresi che focalizza la funzione simbolica come attività sintetizzatrice degli opposti.
Nei suoi più noti transiti di pensiero, dalla Interpretatio duplex (Borla, Roma 1986) alle Metafore del simbolo (Raffaello Cortina, Milano 1986), dall’ombra alle situazioni limite, con la mirabile conseguenza nel delta critico da lui così opportunamente rivendicato, egli coglie costantemente la profonda staticità della psicologia come scienza di frontiera tra natura e cultura, tra discorso della psiche e discorso sulla psiche.
Il superamento del relativismo junghiano (L’altra lettura di ]ung, Raffaello Cortina, Milano 1988) cercato da Trevi, così come era stato delineato (con altro percorso) da Fordham e, con percorso più mitografico, da Hillman, ha proposto di elaborare quella che vorrei indicare come una psicologia dialogica con forte declinazione ermeneutica, aperta all’esercizio dell’autolimitazione ma attenta anche ai pericoli del relativismo, solo apparentemente tollerante.
Un altro passaggio fondamentale del pensiero di Trevi, come si legge in Adesione e distanza (Adesione e distanza i. Una lettura critica de “L’Io e l’inconscio” di
Jung, Melusina, Roma 1991; Adesione e distanza ii. Una lettura critica
dei “Tipi psicologici” di Jung, Melusina, Roma 1993) un passaggio critico e “luterano” è quello dell’attento riesame dei “tipi psicologici”, dove le configurazioni e le metafore vengono assunte per un’analisi senza dogma e senza garanzia.
I concetti originali di “personalità carismatica e acroatica” forniscono la ragione di una certa contraddittorietà della didattica junghiana, pur nella sua accezione del limite del didatta e del suo “indottrinamento”.
Qui Trevi da tempo ha colto appieno l’attuale distinzione fra psichiatria delle competenze (del significato) e psicologia dei fondamenti (del senso), fra spiegazione ed ermeneutica, fra neuroaffettività e dialogica dell’incontro.
Egli da anni sta offrendoci una mappa delle zone critiche dell’agire psicoterapeutico, sempre in bilico fra scienza della natura e scienze sociali, mettendoci in guardia dal confondere la cauta modellistica metaforica di Jung con i pretesi archetipi, e anche da eccedenze opzionali pro pensiero concettuale o pro polivalente immaginazione.
Già nel 1987 Mario Trevi (Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987; nuova ed.
Fioriti Editore, Roma 2000), proponeva il continuo trapasso dal logos della proposizione scientifica in sé conchiusa al dialogo come strada della ricerca; indicava chiaramente le dense implicazioni terapeutiche contenute nella pertinenza ermeneutica della psicologia
analitica, e ricordava che bisogna dire con Gadamer che «l’arte del domandare è l’arte del domandare ancora» (H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), trad. it. Bompiani, Milano 1983, p. 424).
I rapporti tra attività simbolica e inesauribilità ermeneutica hanno ricevuto da lui più di un inquadramento originale, ove si valorizza la complementarità tra un sé multiplo e un io integrato. Ciò, a mio parere, apre una via maestra per la possibilità di considerare la teoria del processo di individuazione come ipotesi ermeneutica, coinvolgente la dialettica dell’intenzionalità e l’impegno nell’analisi non solo e non tanto del paziente quanto, soprattutto, del rapporto analista-paziente.
Si può qui intravvedere una grande tematica, che ci attende per i prossimi anni: la tematica della reciprocità e, con essa, l’interazione dialogica.
Ciò è stato pienamente inteso dai vari autori che hanno intrapreso questo volume, così denso di pensiero e di affetto.
In primis la mia attenzione va a Luigi Aversa, lucido e coerente teoreta, volto attualmente a precisare e sviluppare un pensiero clinico di orientamento junghiano, evitando le secche della dogmatica e mirante al concreto operare della psicoterapia. Aversa è attento ai modelli della mente nelle neuroscienze ma ci tiene molto, riferendosi al rapporto tra funzione e relazione (io direi significato e senso), a ribadire che non si può fare a meno di una metapsicologia. Nel contributo attuale Aversa tocca un argomento cruciale, che ci è ineludibilmente proposto nell’esperienza psicoterapeutica, sempre in bilico fra identità e alterità, con il recupero dell’alter dall’alienus e, quindi, nella piena assunzione della responsabilità etica dell’ascolto.
Su questa base dell’ascolto il ricco e denso contributo di Enzo Vittorio Trapanese coglie l’aspetto propriamente fenomenologico della psicoterapia, quello che vede in ogni psicoterapia (direi io) un processo di «confronto interattivo fra due persone al di fuori di qualsiasi schema interpretativo».
È qui che si può cogliere tutto il peso del ruolo euristico della metafora, così ben individuato già anche da Galimberti, che indica in essa «l’elemento creativo e produttivo della cultura». Arditamente ma non sconsideratamente oserei dire che la metafora è la pompa dell’intuizione e che in tal senso essa fa avanzare la conoscenza, come diceva anche anni fa Maffei; è essa che consente l’inoltrarsi in quel territorio della trasformazione reciproca che oggi va sempre più proponendosi (Heidegger diceva che ora non è più il tempo dell’Io, la Ichzeit, ma è il tempo del Noi, la Wirzeit). Con la finezza della sua analisi Trapanese ci propone la ricchezza di questa articolazione psicoterapeutica, anche nell’ermeneutica dei silenzi, della comunicazione non-verbale, dell’atmosferico. Certo, i più recenti orientamenti di tipo relazionale, sia pure ampiamente recepiti, non lo inducono ad
indulgere a facili sincretismi ma piuttosto, anche tramite il pensiero di Trevi, lo spingono verso una profonda revisione critica di alcuni presupposti individualistici della psicologia junghiana.
Su questa linea si ritrovano anche Amedeo Ruberto e Roberto Manciocchi, autori di un ampio contributo teso a rileggere l’attualità e la vitalità del concetto junghiano di complesso.
Più sensibile alle fascinazioni di altri paradigmi recenti, come la teoria dell’attaccamento, è il saggio di Giorgio Caviglia, che indaga i presupposti della creatività nella produzione simbolica del paziente in analisi.
Leggo nuovamente qui anche il nome di Mauro La Forgia, mio amico all’Enciclopedia Treccani, a me collegato dagli studi sull’intenzionalità, che egli riprende qui, trattandone le prospettive cliniche e preconscie. Di lui ricordo il bel volume Sogni di uno spiritista (Melusina, Roma 1991), nonché l’ardita rivisitazione dei principali concetti della psicologia analitica in rapporto all’imbarazzante interesse junghiano per la parapsicologia, per l’energetica psichica, per la sincronicità. Originali contributi sui «riverberimentali, le empatie intenzionali, le aree fusionali» caratterizzano l’ardito pensiero di La Forgia, comunque sempre attento alla loro valenza clinica, ma sempre profondamente esistenziale e coinvolgente, anche in senso “psicagogico”, per prendere il suo termine d’inizio.
D’altro canto il contributo di Umberto Galimberti ci ricorda certi rischi della nostra attività simbolopoietica e prospetta da par suo alle nostre capacità ermeneutiche l’asserto (così mi pare) che nessuna interpretazione satura la funzione di verità del suo oggetto il quale mantiene invalicabili confini di inconoscibile. Ci ricorda, ancor più, la realtà del corpo, la sensorialità dell’immagine, in una parola, il pensiero affettivo, dove la dimensione cognitiva e quella affettiva restano problematicamente aperte verso compensazioni reciproche (penso al Trevi di L’altra lettura di ]ung), proponendo quella visione integrata di una mente affettiva, così limpidamente propostaci da Maria llena Marozza nel suo contributo in questo volume, che mi ha profondamente coinvolto con la sua focalizzazione dell’attuale panorama dell’intelligenza delle emozioni (Martha Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni (2001), trad. it. il Mulino, Bologna 2004), della paticità del tempo (Aldo Masullo, Paticità e indifferenza, il Melangolo, Genova 2003), dell’intersoggettività come orizzonte prelinguistico. Ella mi ha offerto sollecitazioni verso la critica del sintomo o, meglio, della semiologia come atta a ostacolare l’ascolto del paziente, reificandolo. Ho qui potuto cogliere suggestive aperture alla dimensione della mondanità dell’Io (la Weltlichkeit des Ichs, del mio compianto maestro Jiirg Zutt, di Frankfurt, cosi ben ripresa da Peter Schonknecht nel 1999 – P. Schonknecht, Die Bedeutung der Verstehenden Anthropologie von Jurg Zutt fur Theorie und Praxis der Psychiatrie (1893-1980), Konigshausen, Wiirzburg 1999). La Marozza ripropone il pensiero simbolico (proprio nei termini e nello spessore teorico che dobbiamo a Mario Trevi) fondamentalmente come un pensiero affettivo, sempre aperto verso compensazioni reciproche tra dimensione cognitiva e dimensione affettiva. Il suo invito a una comprensione psicologica sempre in bilico tra l’elaborazione di modelli e la creazione di metafore è da accogliersi senza riserve, anzi con una specie di “entusiasmo epistemologico”.
Di questa densità epistemologica mi aveva fornito prova anni fa Angiola Iapoce, con un suo acuto e coinvolgente scritto sul problema della coscienza e della metapsicologia, sensibile all’incontro-scontro Jung-Buber, al discorso della psicologia e sulla psicologia; ora, muovendosi nella regio incognita dei rapporti tra affettività e tempo (come già quindici anni fa aveva fatto Concetto Gullotta – Affettività e tempo. Dalla psicopatologia alla psicologia analitica, in «Rivista di psicologia analitica», 40, 1989, pp. 81-100), si riapre alla vexata quaestio di una dimensione semiotica nel simbolo junghiano. La Iapoce riprende le prefigurazioni di senso husserliane applicate alla sintesi percettiva, con una limpida analisi della discontinuità.
Alla tradizione fenomenologica si àncora anche il compianto Emilio Garroni, una delle figure più significative della filosofia italiana degli ultimi cinquant’anni. Garroni, nell’accostarsi alla questione del rapporto tra simbolo e linguaggio, si concentra in un’analisi del rapporto tra percezione e linguaggio (partendo dall’inconcepibilità
del linguaggio senza percezione) per affrontare il problema stesso della costruzione del simbolo, vista come elemento imprescindibile del vivere umano, anche nelle sue manifestazioni scientifiche.
Al simbolo e alle carenze della capacità di simbolizzazione nella situazione terapeutica si richiamano ancora le riflessioni di Vincenzo Caretti, già in altri saggi attento studioso del simbolo nella formazione clinica junghiana, come liberatore degli opposti e come creatore di senso, esistenzialmente attivo.
Francesco Saverio Trincia riflette sulla declinazione del simbolo in Freud per entrare in dialogo con lo junghismo, attraverso la mediazione proposta da Mario Trevi con Marco Innamorati in Riprendere ]ung (Riprendere Jung, Bollati Boringhieri, Torino 2001) e per piegare questo dialogo a un confronto con la riflessione filosofica sulla “possibilità dell’impossibile” che passa attraverso Derrida, Benjamin e Adorno. In questo senso si può cogliere un’affinità con il contributo di Paulo Barone, recente autore di Lo junghismo (Raffaello Cortina, Milano 2004) ma qui impegnato in un vertiginoso tentativo di «pensare dialetticamente e non dialetticamente a un tempo».
Stefano Catucci concentra la propria riflessione sul luogo simbolico più arcaico, o almeno come tale inteso, in polemica con Heidegger, da Bachelard: «l’uomo, prima di essere gettato nel mondo, è deposto nella culla della casa».
Marco Innamorati investiga il dialogo sotterraneo e mai completamente dichiarato del mainstream neofreudiano con il pensiero di Jung. Il suo saggio propone una conclusione forse inaspettata ma non paradossale: che quasi tutti i fermenti creativi profondi della
psicologia analitica sono penetrati nella psicoanalisi contemporanea (che ne siano consapevoli o meno i suoi esponenti). Questa si ritroverebbe assai più simile- dal punto di vista della pratica clinica – alla visione originaria di Jung che a quella di Freud, salvo in un punto, ovvero proprio nella concezione del simbolo.
Infine un’attenta ricostruzione del pensiero di Trevi viene proposta nel saggio di Paolo Francesco Pieri; giustamente egli mette in risalto il valore centrale che il concetto di dialogicità riveste in tutte le aree nelle quali si è inoltrata la riflessione treviana, che si tratti di descrivere le articolazioni della vita psichica, di elaborare un modello per la psicologia o di impegnarsi nella ricerca di riferimenti non dogmatici per la prassi psicoterapeutica.
Tutti questi contributi, secondo la mia lettura, aprono in effetti all’interazione dialogica. Il lévinasiano que l’autre devienne autrui viene a prospettarsi come il motivo di base che collega gli autori al pensiero di Mario Trevi e che mi consente di parlare di una vera e propria analisi della psicopatologia della reciprocità, come inequivoca caduta dell’incontro (la buberiana Vergegnung). Mi imbatto qui, nella mia esperienza professionale, purtroppo, con sempre maggiore frequenza tra i giovani, in alcune modalità coesistentive sfuggenti a ogni appiglio: l’indifferenza, l’apatia, l’acedia (o accidia), il disimpegno, il distacco, la noia.
I colleghi di cui in questo volume ho letto pagine di grande rilievo clinico e umano confermano questo mio sentire. Essi ci invitano a pensare che la nostra psicopatologia non è solo indagine dei sintomi nell’uomo neuronale ma è soprattutto dimensione patica e invito al prendersi-cura; è il luogo privilegiato e a rischio dove si può dire che la verità è erotica e che la conoscenza è sempre aurorale.
Da Trevi, dalla sua serena e luminosa lezione di vita, è proprio questo che abbiamo imparato.