Françoise Frontisi Dueroux, “Disturbi della personalità e tragedia greca”/Fabrizio Desideri, “Kant: la malattia mentale come patologia della coscienza”/Nicholas Humphrey e Daniel C. Dennett, “Parlando per i nostri sé”/Luigi Aversa, “La coscienza e i suoi disturbi”/Mauro Mancia, “Sulle origini della coscienza e del sé”/Giovanni Liotti, “Trauma e dissociazione alla luce della teoria dell’attaccamento”/Mauro La Forgia, “Livelli di coscienza e sensibilità clinica”/Marco Innamorati, “La psicopatologia in Théodule Ribot”/Stefano Fissi, “La coscienza nella metapsicologia post-moderna”/Paolo Francesco Pieri, “Il problema della coscienza nella scienza della mente”
«L’effetto della filosofia è la salute della ragione (status salubritatis). Dato però che la salute umana ( … ) è un continuo ammalarsi e guarire di nuovo, con la semplice dieta della ragione pratica (ad esempio con una ginnastica di essa) non è ancora risolto il problema di mantenere quell’equilibrio che si chiama salute e che sta sospeso sulla punta di un capello; perciò la filosofia deve agire (terapeuticamente) come un medicinale (materia medica) per il cui impiego sono necessari dispensatori e medici (questi ultimi [ossia i filosofi] sono anche i soli legittimati a prescriverne l’uso)» (I. Kant, “Annuncio della prossima conclusione di un trattato per la pace perpetua in filosofia”, in Id., Questioni di Confine. Saggi polemici (1786-1800), a cura di F. Desideri, Genova 1990, pp. 74-75).
«(Noi) possiamo comparare l’anima umana ad una grande carta geografica su cui una grande quantità di punti non è illuminata, mentre lo è solo una piccola parte. La parte non illuminata è il campo delle rappresentazioni oscure, i pochi puntini illuminati costituiscono le rappresentazioni chiare, e tra le rappresentazioni chiare se ne segnalano alcune per la loro luce particolare: sono le rappresentazioni distinte» (I. Kant, Ragione e ipocondria, a cura di P. Manganaro, 10/17, Salerno 1989, p. 95).
Il vero segno generale della pazzia, osserva conclusivamente Kant, sta «nella perdita del senso comune (sensus communis)» e nel «subentrare invece del senso logico personale (sensus privatus)» (I. Kant, Antropologia pragmatica, trad. it. di G. Vidari riveduta da A. Guerra, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 107). Un criterio soggettivo necessario della giustezza dei nostri giudizi in genere, e quindi anche della sanità del nostro intelletto, consiste infatti in questo: nel fatto che «noi rapportiamo il nostro intelletto anche a quello degli altri, e non ci isoliamo col nostro, e con la nostra rappresentazione privata non giudichiamo tuttavia pubblicamente» (Ibidem).