Vladimir Jankélévitch, “L’angoscia dell’istante e la paura dell’al di là”/Enrica Lisciani-Petrini, “Paura dell’al-di-là o angoscia del quasi niente?”/Alfonso M. Iacono, “Paura e fame di futuro”/Ubaldo Fadini, “La paura e il mostro. Linee di una ‘filosofia della simpatia”/Nicoletta Salomon, “Radici antiche della paura”/Ines Testoni, “Paura della morte e anoressia”/Claudia Mattalucci, “Tabù, paure e soggettività”/Amedeo Ruberto e Antonella Leonelli, “Ansia, paura e panico tra psicologia e neurofisiologia”/Eleonora Cannoni, “Capire la paura”/Donatella Poggiolini, Vanna Valoriani, Paola Benvenuti, Adolfo Pazzagli, “Ansia in gravidanza: una condizione di normalità?”/Filippo Accurso, “Freud e Wittgenstein: mitologia del quotidiano e linguaggio della scienza”
Se c’è un autore che si è occupato con una meditazione inesausta e martellante del problema della morte, questo è senz’ altro Jankélévitch.
Ma – significativamente – in un libro di oltre cinquecento pagine dedicato a La mort, riserva uno smilzo paragrafo, quello qui tradotto, e giusto sul finire del libro stesso al tema della paura di fronte a tale evento. Significativamente, dicevamo. Perché a quello che da sempre viene considerato l’atteggiamento normale e persino “morale” dell’uomo di fronte alla morte – la paura appunto – Jankélévitch non solo non ascrive nessuna o comunque un’importanza del tutto irrilevante, ma soprattutto attribuisce un significato di pura copertura di ben altro. Ed è intorno a questo ‘altro’, invece, che egli fa insistentemente ruotare la propria riflessione – nella complessità dei percorsi tracciati nel libro e che ovviamente vanno tenuti sullo sfondo di questo paragrafo – disfacendo a una a una, quasi lavorando di fioretto, tutte le mistificazioni che la paura, con una paradossale forma di rassicurazione per dir così rovesciata, copre.
Nei fatti – sintetizza Jankélévitch, andando al sodo delle questioni nel suo stile notoriamente antiretorico, dissacratorio e persino irriverente rispetto a qualsiasi paludata idealizzazione – sia che si tratti di religioni, sia che si tratti di raffinate speculazioni filosofiche, le cose vengono sistemate secondo una doppia scansione, squisitamente meta-fisica, nei confronti della quale sono state tradizionalmente adottate due modalità d’atteggiamento, in apparenza opposte, in realtà entrambe molto pacificanti e molto “ragionevoli”: costruite, potremmo dire, sul ‘principio di ragione’, sul primato della ratio. In breve: s’immagina un “al-di-là” e un “al-di-qua”, il cui punto di “passaggio” ovvero di “salto” è costituito dall’”istante mortale”. Ora, di fronte a questa doppia dimensione, un atteggiamento, per lo più tipicamente religioso, ma presente anche nelle filosofie che ammettono l’idea di un “al-di-là” ipostatizzato, è quello volto a spostare tutta la paura della morte su quest’ultimo “con le sue minacce” (ovvero le sue ricompense). L’“al-di-là”, in altri termini, acquista una consistenza meta-empirica, viene visto come una sorta di seconda patria, di successiva dimora, e anzi tanto più temibile o allettante a seconda che costituisca una punizione o una ricompensa. In tal modo la paura diventa il “ragionevole” e molto “morale” comportamento di chi con ragione teme l’al-di-là. E di conseguenza l”’istante mortale” diventa l’oggetto di una “fobia motivata” o di una indifferenza ragionata.
Insomma, la paura è ora il nome che serve – paradossalmente – a rassicurare sull’esistenza di un “al-di-là” che, anche se da temere, comunque appare come una garanzia di futuro. L’altro atteggiamento è quello adottato invece per lo più da alcuni filosofi, ricorda Jankélévitch, ma non meno immunizzante rispetto all’angoscia dell”’istante mortale”. Daccapo si riparte dalla scansione metafisica al-di-là/al-di-qua, ma con la fondamentale differenza di pensare l’al-di-là come un “puro niente”, sicché – conclusione impeccabile quanto tranquillizzante – “non c’è, alla lettera, niente da temere”: l’al-di-là non esiste e dunque !”’istante mortale” viene ridotto a un banale, irrisorio “brutto momento da passare”. In questo caso, l”’uomo razionale” sa con ragione che non ha niente da temere e che sarebbe del tutto “irragionevole” e dunque persino disonorevole aver paura! In altri termini: nell’un caso l’al-di-là viene a completare l’al-di-qua offrendogli lo sfondo di un infinito futuro; nell’altro caso l’al-di-là diventa il niente che chiude e perimetra la compiutezza dell’al-di-qua. Così l’istante mortale assurge o a soglia di passaggio verso altra e miglior vita, oppure a confine che sigilla una pienezza. Davvero “un gran bel gioco” – commenta Jankélévitch.
Quale il risultato ultimo di tutta questa raffinata e secolare strategia? Come si diceva prima, l’immunizzazione dell’angoscia connessa all”’istante mortale”, ovvero a quella particolarissima soglia, a quel margine che de-finisce la nostra esistenza. Ed è qui che, invece, vuol ricollocarsi Jankélévitch. In vista di tutt’altro pensiero. Poiché proprio quella soglia, lungi dall’essere un “passaggio” o un “salto”, è piuttosto un “quasi-niente”, cioè un limine che segna il nostro sostare su un “quasi” appunto, che sporge su “qualcosa” di indefinibile: un “non-so-che” che sfugge ad ogni possibile parola (come dimostra
la sua stessa ‘definizione’ che non lo definisce affatto: “non-so-che”) e si sottrae dunque a qualsiasi spiegazione o ragionamento. A qualsiasi ‘principio di ragione’ che lo riduca a “sostanza” e quindi a “causa”. Ecco perché si tratta di qualcosa che mai può costituire la causa o la ragione o il motivo di una paura. Ma al contrario costituisce l’irragionevole e immotivato – e perciò “inconfessabile” e persino un po’ immorale e “indecente” (si pensi alle pagine, in questo stesso libro, di Jankélévitch su La morte di Ivan Illitch di Tolstoj) – “niente” di un’angoscia. Ma tutto questo, sembra incalzare il filosofo, sta a svelarci o ricordarci un senso della nostra vita alla lettera “acutamente tagliente”. Ossia che la nostra esistenza, lungi dal costituire una pienezza, un tutto compiuto, è un “quasi-niente”, che porta sempre in/con sé una nullità ineliminabile, e dunque è scavato, tagliato, reso concavo e ‘finito’ da una incompiutezza mai medicabile che lo ‘finisce’.
È questa finitezza, è questo taglio – che (de-)finisce ogni vita ciò che l’“istante mortale” sempre di nuovo riporta al pensiero. Ma, appunto, il taglio dal quale con angoscia ci ritraiamo, per poterlo – grazie alla paura – dimenticare.
Enrica Lisciani-Petrini