26-27 n.s./2020
SUI VOLTI DELL’AUTORITÀ

a cura di

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

PREFAZIONE – Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri // SAGGI / La pandemia ha il volto di Amleto – Silvano Tagliagambe / L’auctoritas dai mille volti. L’assenza di volto dell’autorità contemporanea – Francesco Valagussa / La narrazione del padre. Considerazioni su Alexandre Kojève, l’autorità, la tradizione – Massimo Palma / Una tutt’altra sovranità. Rileggendo “La Sovranità” di Georges Bataille – Felice Ciro Papparo / Il volto e l’identità. A partire da Canetti e Deleuze – Ubaldo Fadini / Tornare indietro e andare avanti – Amedeo Ruberto / Disordine, irritazione, cura. La pandemia in psicoterapia – Mauro La Forgia / Autorità. Per una storia del legame auctoritas-exousìaPietro De Marco // ARTICOLI DI “ATQUE” 1990-2020 – PER AUTORE

 

 

 

[Anteprima delle prime pagine di ogni articolo del fascicolo.]

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Si deve ammettere che l’epidemia da covid-19, con la sua tendenza a diffondersi rapidamente e a più riprese, attraverso tutti i continenti, ha indotto a introdurre drastici cambiamenti nei nostri modi di vivere con gli altri e nello stesso rapporto con noi stessi.

E nel contesto di contagio pandemico in cui ci siamo venuti a trovare, abbiamo innanzitutto subìto una ferita narcisistica percependo la nostra fragilità umana insieme alla consapevolezza sia che non siamo gli unici esseri viventi sia che non possiamo continuare a considerare il nostro stile di vita come l’unico possibile.

L’inedita condizione di pericolo in cui ci siamo trovati ha sottoposto i modi di vita a un drastico ridimensionamento e alla necessità di ascoltare e spesso a seguire, volenti o nolenti, quanto proveniva da voci autorevoli, sia da quelle che all’autorità univano il potere sia da quelle la cui autorità proveniva dal sapere (le figure degli esperti: medici, scienziati, virologi, fisici ecc. sia in veste individuale sia in veste di comitati tecnico-scientifici).

È perciò intenzione di questo fascicolo di Atque, il domandarsi quale funzione abbiano nelle nostre vite i vari tipi di autorità e quale sia il gioco ottico dove compaiano quei volti che intanto incarnano questa figura. Si intende così raccogliere studi, pensieri, riflessioni, interrogativi e financo provocazioni sull’oggi dell’autorità e sul senso della sua permanenza nelle nostre “forme di vita”, per esprimerci con Wittgenstein.

 

D’altronde, discutere oggi dell’autorità è sommamente difficile, dal momento che questa figura, nelle sue incarnazioni politiche, religiose, istituzionali e sociali, ci si impone nel cuore di una crisi epocale e tale da mettere sottosopra il bagaglio di certezze e abitudini sul quale ci eravamo costituiti (adagiati) negli ultimi decenni. Quel concetto di autorità (di auctoritas) che fino a poco tempo fa ci sembrava in declino o in un processo di inarrestabile decadimento, adesso ci si impone anche al di là di ogni nostra adesione intenzionale. Così la sua stessa crisi, come ogni altra, può incorporare “fermenti non ancora conoscibili” una volta liberata dai “fermenti cultuali”, con cui per l’appunto la tradizione la identificava. Può essere insomma un passaggio per qualche verso salutare, almeno dal punto di vista riflessivo o cognitivo.

Al punto che ci si può anche chiedere come sia possibile alleggerire l’autorità dal peso della storia – con il relativo complesso di mediazioni, interpretazioni e rapporti di potere. E ciò perché le cose e le persone proprio solo perdendo la loro “saturazione” diventano permeabili, e nella “porosità” che finiscono col mostrare, divengono effettivamente percepibili – testimoniando nel contempo la storia degli sguardi che nel corso del tempo le hanno investite.

La domanda cruciale da cui occorre partire è, in altri termini, come sia possibile pensare l’autorità non tanto in sé e per sé, quanto nei suoi volti, riconsegnandola alla dialettica sia percettiva sia cognitiva che ogni volta dispiegandola la istituiva. In tal modo, l’autorità non sarebbe immediatamente né nel padre, né nel maestro, né nel medico, né nelle cose che questi dicono. L’autorità sarebbe piuttosto nel volto del padre, nel volto del maestro, nel volto del medico e nel volto delle loro stesse cose. In quei volti che vengono all’espressione all’interno di ciò che potremmo chiamare un “gioco di sguardi”. In un gioco che da solo sarebbe capace di instaurarla, e insieme di intrecciarci a essa – in quella adesione e in quella distanza che si danno nella concreta esperienza in cui ogni volta ciascuno di noi si trova.

Non è forse solo una tale esperienza ciò che istituisce simultaneamente un padre e un figlio, un maestro e un allievo, un medico e un paziente? E non è proprio per il dispiegarsi in un complesso di percezioni che il padre, il maestro, il medico e le cose che dicono possono recare il contrassegno dell’autorità, o meglio rivestirsi della maschera dell’autorità, impersonandola?

Pensandola nella forma di un vero e proprio involucro, l’autorità non atterrebbe più a una essenza che si disvela, né sarebbe l’effetto di una prospettiva. Essa avrebbe piuttosto a che fare con la stessa singolarità del suo modo di apparire nella nostra esperienza – per quanto possa trasformarsi psicoanaliticamente (e non solo) in una “fissazione” eterna e atemporale, ma una volta così intesa sarebbe in vario modo da interrogare.

Comunque l’autorità è tale, quando è pura. Ovvero allorché viene in esercizio senza violenza e legittimamente. È vero che l’autorità è il prodotto di una forza che catturando la nostra attenzione e quindi accadendo prima di ogni nostra intenzione, ci espropria e si impadronisce involontariamente di noi. Ma solo sapendo esporsi sempre alle verifiche e le critiche, l’autorità (la pura autorità) saprebbe mostrare, per varie vie, di poter essere riconosciuta legittima – ma non per questo unica, ultima e assoluta.

In questo fascicolo che va immaginato come una discussione sulla autorità ma anche sulle regole, il lettore vi troverà una qualche riflessione sulla nostra infanzia antropologica, e non meramente biografica. Ovvero su quella dimensione che ci pone costantemente in debito verso le autorità e le “credenze”, che ogni volta veniamo implicitamente a riconoscere. Come ci ricorda Wittgenstein quando fa un’incursione nella “psicologia evolutiva”, noi “incorporiamo” sempre dei concetti, nel senso che con le nostre forme di vita stiamo sempre assimilando regole e regolarità, fino a che esse si trasformano in immagini che informano la nostra mente e si traducono in abiti e comportamenti. Con la conseguenza che avremo da considerare falsi ideali sia la nostra totale autonomia, sia la piena padronanza razionale della nostra esistenza e del linguaggio che usiamo – essendoci stato trasmesso, e avendolo potuto accogliere con una certa passione.

D’altra parte, non potrà neanche non trovarvi una riflessione sul fatto che le regole mutano insieme al mutare delle esigenze e delle condizioni di vita. Ovvero c’è modo di pensare come le regole siano immanenti, per cui il “seguire una regola” è ciò che – accadendo nella prassi – rinvia alla vita e all’impertinenza e imprevedibilità del suo mutare e delle sue dinamiche. Facendo una distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume e il suo possibile spostamento, Wittgenstein osserva che come l’alveo del fiume si può spostare sotto la pressione dell’acqua, così le regole possono mutare sotto la pressione dei bisogni che le nostre pratiche sociali quotidianamente veicolano.

E non è poi di questo (anche di questo) che l’irruzione della pandemia da covid-19, con i vari volti dell’autorità che ci sfilano davanti, ci fa fare esperienza?

 

  1. L’odierna situazione del potere e delle relative figure dell’autorità che si dispiegano di fronte all’emergenza coronavirus può essere descritta in modo efficace attraverso la rappresentazione di un’atmosfera che possiamo definire ‘amletica’. È per questo che il volume si apre analizzando la famosa rappresentazione dell’Amleto di Shakespeare al Teatro d’Arte di Mosca (1911) con la regia di Konstantin Stanislavkij e le scenografie di Edward Gordon Craig. In linea con una tendenza all’interno del movimento simbolista di vedere l’opera di Shakespeare come un’opera di poesia piuttosto che come un’opera teatrale, lì Craig concepì effettivamente la produzione come un monodramma simbolico in cui ogni aspetto della produzione sarebbe stato soggiogato al protagonista dell’opera: il gioco presenterebbe una visione onirica vista attraverso gli occhi di Amleto. E per supportare questa interpretazione, egli volle che Amleto fosse presente sul palco durante ogni scena, osservando in silenzio quelle a cui non ha partecipato. Il nocciolo della interpretazione mono-drammatica di Craig stava nella messa in scena della prima scena del tribunale. Il palcoscenico era diviso nettamente in due aree attraverso l’uso dell’illuminazione: lo sfondo era molto illuminato, mentre il primo piano era scuro e ombroso; gli schermi erano allineati lungo la parete di fondo e inondati di una luce gialla diffusa. Da un alto trono su cui sedevano Claudio e Gertrude, che era immerso in un raggio dorato luminoso e diagonale, scendeva una piramide che rappresentava la gerarchia feudale; la piramide dava l’illusione di un’unica massa d’oro compatta, dalla quale le teste dei cortigiani sembravano sporgere dalle fessure del materiale. In primo piano, nell’ombra scura, giaceva accasciato Amleto, come se stesse sognando. Un velo sottile sottile era appeso tra Amleto e la corte, per rimarcare ulteriormente la divisione. Al momento dell’uscita di Claudio, gli altri personaggi restavano al loro posto mentre il velo veniva allentato, così che l’intera corte sembrava sciogliersi davanti agli occhi del pubblico, come se si fosse trattato di una proiezione dei pensieri di Amleto, che ora si rivolgevano altrove (Silvano Tagliagambe).
  1. D’altra parte il concetto di autorità va seguito nel suo sviluppo storico. Ed è con particolare riferimento a Hobbes e Rousseau che esso appare caratterizzato da una serie di aporie, che proprio val la pena di individuare. Alla luce della riflessione foucaultiana, è intanto il caso di indicare come la concezione dell’autorità abbia subito una metamorfosi nel suo passare dalla logica dialettica, tipica della cosiddetta teologia politica, alla logica strategica tramite cui si configura l’orizzonte biopolitico. Così l’autorità è divenuta appannaggio dell’apparato produttivo: nell’attuale quadro socio-economico è impossibile darle un volto univoco e coerente, fino a presentarsi frantumata in mille schegge – del tutto eterogenee tra loro (Francesco Valagussa).
  1. Va rammentato che il fenomeno autoritativo è stato oggetto di un’indagine tipologica da parte di Alexandre Kojève nel suo trattato pubblicato postumo dal titolo La nozione di autorità (1942). Tra le quattro tipologie (signore, capo, giudice, padre) che questo filosofo di origine russa individua, l’ultima è quella che intrattiene un rapporto col passato e con la tradizione. Pur priva di ogni qualità personale, di ogni carattere dirimente, governando il racconto della tradizione, l’autorità paterna è secondo Kojève un tipo determinante nella configurazione di ogni regime politico. È per ciò opportuno che siano illuminati alcuni aspetti della definizione apparentemente solo funzionale di autorità paterna in Kojève soprattutto nella cornice più ampia della sua filosofia, insistendo sul rapporto che intrattiene con il tema del saggio del sapere assoluto e con le sue fattezze virili (Massimo Palma).
  1. Ma che cos’è la sovranità? E come è possibile indicare una tutt’altra sovranità? Mai come in questi anni il concetto di sovranità è stato al centro del dibattito politico e culturale. Ci sono però vari modi di declinare questo “potere originario e indipendente da ogni altro potere”. Georges Bataille, per esempio, ci ha offerto settant’anni fa un’interpretazione della sovranità che può essere davvero interessante far reagire sull’oggi. Una sovranità che “ha poco a che vedere con quella degli Stati” e che si configura innanzitutto come “aspetto opposto, nella vita umana, a quello servile o subordinato”. Indicando così soprattutto uno spazio di esperienza – giacché per il filosofo francese l’esperienza è la “sola autorità, il solo valore” – in cui la vita si prova. Non insomma l’esercizio di un potere che asservisce e vincola, che compete e resta chiuso in sé, ma la liberazione, l’uscita fuori di sé, la “distruzione dell’abitudine ad avere uno scopo”, aprendosi al piacere della propria consumazione. Proprio per questo occorre andare a vedere come Bataille faccia apparire questa “tutt’altra sovranità” nelle diverse forme dell’esistere umano: nell’infanzia, nella giovinezza, nelle figure della “minorità” che la letteratura e l’arte, nel loro confronto con il male e la crudeltà, ci hanno saputo presentare (Felice Ciro Papparo).
  1. A proposito dei “volti dell’autorità” occorre intanto soffermarsi sul tema del ‘viso’ e della ‘maschera’. Rispetto a questo va detto che, anche in relazione con le tesi di Elias Canetti contenute in Massa e potere, Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno articolato una salutare impresa teorica, su diversi piani, caratterizzata dall’affermazione di una decisiva politicità del viso. Che consente di leggere la sua realtà in termini tali da rinviarla infine a flussi, intensità e insiemi di vicinanze [prossimità] mai fissabili una volta per tutte. Si tratta allora di evidenziare da un lato il carattere operativo dell’identificazione del viso con la maschera, sulla scia di alcune riflessioni di Alessandro Pizzorno, e dall’altro l’importanza di una politica conseguente del disfarlo in vista della liberazione di ciò che potrà impegnarsi nella delineazione di divenire realmente non assorbibili dai concatenamenti dati di potere (Ubaldo Fadini).
  1. In quest’epoca di pandemia, si può affrontare direttamente il tema dell’autorità o girare intorno alle sue imprevedibili torsioni, ma è anche il caso di volgere l’attenzione verso alcuni meccanismi generali connessi a tali periodi critici – individuali o collettivi che siano. Per esempio, verso meccanismi generali quali: sentimenti amplificati d’angoscia e di fine del mondo, impossibilità di contatto con un mondo che appare improvvisamente “cambiato” e incomprensibile, negazione e ubiqua proliferazione di “spiegazioni” banalmente abborracciate e paranoicali, condivisi e diffusi comportamenti anticonservativi ecc. È opportuno quindi soffermarsi su alcuni degli aspetti puramente psicologici che sembrano chiamati in causa nella questione, cominciando dal rapporto fondamentale tra istinto di autoconservazione e istinto di conservazione della specie per poi aver la possibilità di rielaborare le nozioni di reale e di vero. Una particolare attenzione va rivolta al meccanismo psicologico della regressione riflettendo sulla sua dinamica ma anche sulla sua finalità come elemento necessario per un adattamento morfogenetico. In questo periodo di pandemia è infatti sommamente utile considerare alcuni elementi di carattere concettuale ed esperienziale particolarmente stressati. In particolare, va notato come il meccanismo psicologico della regressione, dell’andare indietro, appaia necessariamente connesso alla possibilità di sviluppi non conflittuali e a soluzioni trasformative (Amedeo Ruberto).
  1. Sempre in relazione a questo periodo, è particolarmente opportuno disporre – come qui è possibile – anche di un resoconto soggettivo dei sentimenti di sconcerto, di disordine, di irritazione, spesso accompagnati da agiti abbandonici, che hanno caratterizzato l’esperienza psicoterapeutica nelle fasi pandemiche, condotta attraverso sedute online. Proponendo una casistica di reazioni della coppia analitica alla nuova forma di setting, indicando soluzioni delle problematiche più evidenti, è possibile considerare come le piattaforme informatiche ci aprano delle possibilità, ma fanno anche intravedere come parte del patrimonio concettuale e metodologico della professione psicoterapeutica possa diluirsi – o disperdersi. Sarà certamente compito dei prossimi anni abbracciare le nuove opportunità, ponendo però attenzione a non decostruire un’identità e un’esperienza costituitesi in più di un secolo di lavoro (Mauro La Forgia).
  1. D’altronde va detto che oggi l’autorità appare studiata in un orizzonte compreso tra la diagnosi della sua crisi (politica, morale e in generale gerarchica) e la sua sopravvivenza inormale, liquida, nel mondo relazionale. Si impone per ciò uno studio della molteplicità dei vocaboli che designano l’Autorità (e la interpretano), a partire dalle culture latine, greche ed ellenizzate, classiche e cristiane, attraverso le trasformazioni medievali, fino alla costruzione della sovranità moderna e al conflitto, semplificatore, tra potestas statuale e auctoritas della Chiesa. Non si potranno non esplorare le interferenze tra auctoritas romana e exousia greca, precristiana e cristiana, della duplice traduzione di exousia con potestas, poi con auctoritas, authority, autorité, e forse con souveraineté e maestà, e i corrispettivi istituzionali e ideologici, come invito a tenere conto di costanti e variabili del linguaggio teologico-politico. La trascendenza e la contemporanea azione dell’autorità sono espresse più profondamente dalla teologia cristiana dell’incarnazione e dalla ‘duplice’ natura del Cristo (Pietro De Marco).

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

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