28-29 n.s./2021
AL GREMBO DELLE PAROLE

a cura di

Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

 
Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica, con specifici riferimenti alla talking cure. In forma di dizionario – Paolo Francesco Pieri / Prefazione – Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri // Parte prima – Quale parola per la cura / Cura e parola: un intreccio necessario – Enrico Ferrari / I tre paradossi della traduzione psicoanalitica – Giuseppe Martini / Parole che immaginano – Roberto Manciocchi / “A me piace sentire le cose cantare”. Variazioni sul tema dell’esperienza tra psicopatologia e filosofia – Angiola Iapoce / Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cureMaria Ilena Marozza // Parte seconda – Estetica della cura / Musica, parola, gesto: lo “sguardo attraverso” – Silvano Tagliagambe / L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi – Giuseppe Civitarese / Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse – Elena Gigante / La cura della parola incurabilisFrancesco Di Nuovo / Glossario di un lettore – Antonino Trizzino // INDICE PER AUTORE DEGLI ARTICOLI DI “ATQUE” 1990-2021

 

 

 

[Anteprima delle prime pagine di ogni articolo del fascicolo.]

 

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In questo fascicolo di “Atque” torniamo a riflettere su quella pratica di cura che definiamo talking cure, a partire dalla brillante definizione di Anna O., alla luce di alcuni argomenti ampiamente dibattuti nei fascicoli pubblicati in questi ultimi anni.

Per certi versi, la talking cure dei nostri giorni tende sempre più a riconoscersi in una dimensione performativa, valorizzando le azioni, le trasformazioni, i passaggi che si compiono nella pratica linguistica, avendo ormai quasi del tutto abbandonato sfondi più concretistici o rimandi ad altri livelli di realtà che diano senso all’attuale. E tutto ciò conduce di necessità a ricercare una migliore capacità descrittiva dell’esperienza e della sua attualità, ma anche, approfondendo in senso critico il concetto stesso di esperienza, a giungere al grembo delle parole.

Per questo intendiamo parlare di estetica della talking cure accogliendo la proposta di Emilio Garroni e di Fabrizio Desideri di guardare all’estetica non più come una disciplina speciale, ma come una riflessione critica sulle condizioni di senso dell’esperienza, volta a esplorarne la grande complessità. Lo “sguardo-attraverso”, mutuato da Wittgenstein nel tentativo di descrivere quel modo paradossale di vivere dentro l’esperienza mettendola contemporaneamente in questione dall’interno, esprime molto bene il processo di pensiero che accompagna costantemente la pratica della talking cure, almeno quando essa si ponga criticamente in discussione relativamente ai modi del suo farsi.

 

Come si vedrà nella lettura di questo fascicolo, assumere questo vertice di riflessione fa sì che alcune questioni che hanno attraversato le concezioni della talking cure si presentino in modo molto diverso, tanto da delineare un nuovo contesto riflessivo della sua teoria della clinica.

In primo luogo perde di consistenza sia la prospettiva internalista che ha inteso la mente come un fenomeno osservabile e spiegabile scientificamente al pari degli altri fenomeni, sia la prospettiva internalista che, con la sua classica distinzione tra mondo interno e mondo esterno, ha trascinato con sé presunte autonomie del mentale, e relativi accessi privilegiati, acritici riduzionismi e causalismi derivativi.

Analogamente, l’ammissione di un “primato dell’esperienza” si rivela uno strumento fecondo per ripensare criticamente il “primato del linguaggio” che ha dominato decenni di riflessioni sulla talking cure: non certo nel senso di una messa da parte di quest’ultimo – ché il linguaggio, una volta acquisito, non può più essere ignorato, proprio per gli spazi intersoggettivi e le operazioni simboliche che consente – ma nel senso di una valorizzazione della complessità e della difformità delle dimensioni interagenti nell’esperienza.

E proprio in questo senso, assume un valore strategico la riflessione sulla proposta che ci arriva da due autori come Emilio Garroni e Fabrizio Desideri, dove si pensa una correlazione molto stretta tra percezione e linguaggio, come dimensioni che, pur avendo origini, strutture, temporalità e finalità diverse, si sviluppano in un gioco interattivo, in cui il passaggio dall’indeterminatezza pre-linguistica verso definizioni più specifiche si avvale continuamente di una costitutiva, feconda reciprocità.

Di fatto, nella pratica della talking cure, sono sempre in gioco le componenti percettive ed emotive che attengono non già ai processi intenzionali (consci) bensì ai processi attenzionali (inconsci): e già questo può essere un rovesciamento dell’euristica della cura, non foss’altro che nel privilegio assegnato a una modalità di comprensione inscindibile dalle implicazioni percettive ed emozionali specifiche del presente attuale. Come si vedrà, tutto ciò, seguendo per certi versi la pista di Merleau-Ponty, ci conduce in fondo ad allontanarci definitivamente da ogni primato assegnato a un mondo interno rappresentazionale, a favore piuttosto dello studio dell’interfaccia percettiva, e di tutta la sua enorme complessità.

Altro punto di rilievo è la considerazione di come, in questo gioco interattivo e diversamente espressivo di percezione e linguaggio, l’oggetto resti comunque un termine che, opponendo resistenza, non si lascia completamente prendere, svelare, esprimere o rappresentare, per cui lascia sempre qualcosa da dire, o forse anche qualcosa che non si può dire. Come allora pensare questo resto nella nostra talking cure? Come ci provoca, questo resto, nella ricerca di un’ulteriorità del discorso, nella ricerca di un non-ancora? Possiamo intenderlo, à la Wittgenstein, come quell’inesprimibile che costituisce lo “sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato”? Oppure potremmo, à la Jankélévitch, distinguere un indicibile che “allude alla desolazione e al silenzio della morte” da un ineffabile su cui “c’è infinitamente e ineusastivamente da dire”? Oppure, ancora, à la Desideri, potremmo intenderlo come rinvio a quelle emozioni che, proprio perché si esprimono in forma sub-intenzionale, “non possono mai tradursi nell’orizzonte cognitivo”? E questo argomento non ci avvicina forse a ripensare che il grado intellettuale della mente (l’Io) si trova in dialettica connessione con la mente come coscienza estetica (il Sé), e quindi in modo più congruo con la performatività della talking cure?

Per questa via, si cominciano a esplorare quegli ambiti dell’operare clinico in cui ci si confronta più direttamente con i limiti del rappresentabile, e con quelle feconde differenze che si aprono tra quanto può essere detto nel linguaggio e quanto può essere espresso nella sensibilità che lo accompagna. In questo senso forse è proprio la voce l’aspetto che meglio esprime l’intersecarsi di piani nella costituzione di una comprensione innescata più dal contesto emotivo-percettivo che dall’interpretazione cognitiva. Così come viene utilmente ripensato uno dei riferimenti più comuni nella pratica psicoterapeutica, l’empatia, valorizzandone l’appartenenza ai fenomeni passivi tipici della recettività prerappresentazionale corporea. E questa impostazione costituisce anche un’apertura verso una visione critica di uno dei cardini della psicologia fenomenologica, il concetto di vissuto, per lo meno nelle sue versioni più coscienzialiste o rappresentazionali.

Infine la riflessione viene portata su una concezione dialettica soggetto-oggetto che emerge operativamente dalla prassi estetica, così come dalla riflessità che su di essa si insedia. Sicché emerge una soggettività dai confini aperti, fluttuanti, che si costituisce ai limiti della capacità sensibile, come interfaccia sé-mondo; una soggettività che continuamente si confronta con una funzione riflessiva, legata alla costituzione di un’autocoscienza capace di definire, limitare, designare. Una soggettività, dunque, che si esprime pienamente nel gioco interattivo di sensibilità e linguaggio.

 

  1. È opportuno ricordare che la storia ufficiale della talking cure prende avvio quando Anna O. sperimenta che la parola può far superare il mutismo della perdita. Del resto, un po’ temerariamente, possiamo anche affermare che, se l’uomo non sperimentasse la perdita e la caduta, non avrebbe bisogno né desiderio di parlare. Per questo motivo, parola e cura condividono la medesima origine e il medesimo destino, che è quello di provvedere a sé stessi e all’altro favorendo la comunanza e, allo stesso tempo, il collegamento tra i diversi livelli esperienziali: quello sensoriale, emotivo e ideico. Curativa non può essere la parola delirante perché assolutizza l’idea negando la sensorialità del corpo e, nemmeno, la parola ipocondriaca perché rimane prigioniera dei sensi e non accede alle idee. La parola cura quando diventa parola erotica, che sa abitare la perdita tessendo legami. E la parola cura quando diventa parola estetica, che sente e fa sentire permettendo la globalità della conoscenza e dell’esistenza (Enrico Ferrari).
  1. Se il linguaggio è sicuramente lo strumento principale attraverso cui si svolge l’esperienza psicoanalitica, dovremo senz’altro riconoscere che esso non è terapeutico di per sé. I fattori terapeutici vanno ricercati piuttosto nella trasformazione emozionale che esso consente. Per questo la psicoanalisi, più che una talking cure, è una terapia attraversata dal linguaggio. È perciò opportuno discutere quali cambiamenti apporti alla relazione analitica il riferirsi preferenzialmente all’interpretazione, oppure alla narrazione, oppure alla traduzione. E così indagare le maggiori potenzialità di un lavoro analitico inteso come lavoro traduttivo ed esaminare i tre paradossi con cui tale paradigma ci confronta: 1) lo sforzo di comprendere il paziente si accompagna al riconoscimento dell’inevitabile tradimento a cui questo ci espone; 2) se la traduzione è volta a limitare l’incomprensibile, proprio l’incomprensibile garantisce la fedeltà e il rispetto dell’alterità; 3) la traduzione implica una trasformazione dell’irrappresentabile in rappresentazione, ma tuttavia esito altrettanto importante dell’analisi è la trasformazione inversa dalla rappresentazione all’irrappresentabile (Giuseppe Martini).
  1. Si dovrà dunque porre attenzione ad alcune attuali proposte sull’impresa psicoterapeutica che, abbandonata ogni visione “disvelante”, descrivono la propria pratica come un mettere in forma, un mentalizzare, un dar voce agli aspetti affettivi e sensoriali della relazione presente fra paziente e terapeuta. Tenendo in considerazione questo punto, possono esser prese come spunto di riflessione alcune idee proposte da C.G. Jung, da L. Wittgenstein e da W.R. Bion. Questi autori sembrano avere delle visioni simili relative al rapporto fra l’immagine, la sensazione, la percezione e la parola, e tentano di risalire ai momenti aurorali della nascita del pensiero e del linguaggio nella cultura occidentale (Roberto Manciocchi).
  1. D’altronde va affrontato il ruolo che svolge il linguaggio nella relazione che la fenomenologia ha stabilito tra manifesto e latente, tra essenza e accidente. E va posto il focus sull’esperienza in quanto momento fondante l’essere umano e dimensione fondativa, non aggirabile. La domanda centrale diventa così quella di Bin Kimura: “Che cosa è primario, l’esperienza o il linguaggio”. Per questa via, le riflessioni di Wittgenstein sull’Io in quanto limite del linguaggio, con la relativa impossibilità di accesso agli stati interni nella loro purezza sensoriale, vanno confrontate con la posizione di Bin Kimura, quando pone la dinamica del soggetto e la sua propria identità, sia normale che patologica, nella dimensione intermedia dell’aìda, tra immediatezza della certezza sensibile e mediazione del linguaggio. Si tratta di un luogo che suggerisce una posizione dello psicoterapeuta tanto rispettosa degli Erlebnisse dei pazienti quanto propositiva in senso trasformativo (Angiola Iapoce).
  1. Nelle diverse teorie del linguaggio che hanno sostenuto la pratica della talking cure è rimasto sempre problematico un punto che riguarda il modo di intendere ciò che non è dicibile: quegli aspetti che stentano a entrare in una dinamica virtuosa del gioco interattivo tra immagine, sensibilità, affetti e parola, segnando così un confine insuperabile per una pratica che si qualifica attraverso le potenzialità dell’atto del parlare. Come si presenta l’inesprimibile? Quali limitazioni pone? Coincide con l’indicibile? E se no, in che rapporti è con esso? Ha a che vedere con l’irrappresentabile? È una categoria assoluta o tollera sfumature ed evoluzioni? Queste domande incidono profondamente sull’atteggiamento clinico che assumiamo di fronte ai limiti della capacità di parlare, nostra e dei nostri pazienti, e la risposta che diamo è molto influente rispetto alla nostra capacità di attendere, di accettare il silenzio, di mantenere una fiducia nelle possibilità evolutive di una cura che, attraverso la parola, s’afferra alle esperienze profonde, del passato e del presente vissuto (Maria Ilena Marozza).
  1. Anche se la talking cure è un metodo di trattamento che opera attraverso uno “scambio di parole”, bisogna comunque rilevare che questa nozione è problematica, perché i processi terapeutici sono modellati dagli aspetti non verbali dell’interazione, per esempio l’espressione facciale, la sincronizzazione del movimento del corpo, le pause del discorso e il silenzio. In questo contesto, due nozioni sono di fondamentale importanza. La prima nozione è ben rappresentata dalla ricerca di John Cage sul silenzio, concepito inizialmente in modo tradizionale, come assenza di suono, o come minima attività sonora. Già in questa fase, tuttavia, il silenzio non è solo una negatività per Cage. L’attenzione al silenzio aiuta a scoprire la struttura musicale poiché questa può essere determinata solo dalla durata. La musica diventa un concetto vuoto (silente) da cui può emergere qualsiasi tipo di suono. La “Lezione sul nulla” di Cage, una lettura del 1950, segnala un cambiamento nel suo pensiero sul silenzio. Egli si rende conto che il ruolo importante del silenzio riguardo alla struttura musicale non stabilisce ancora un pieno riconoscimento delle sue qualità positive. All’inizio della ‘Lezione sul nulla’, egli tenta di arrivare a un diverso rapporto con il silenzio, che non è più assenza di suoni: il silenzio stesso consiste di suoni. Il silenzio genera suoni. Chiasma. Reversibilità. Attraverso l’intreccio di silenzio e suono, la loro reciproca penetrabilità viene allora apprezzata. La necessaria interdipendenza tra suono e silenzio riguarda due aspetti principali: il silenzio non è solo la precondizione del suono – questo significa che il silenzio contiene il suono – ogni suono a sua volta ospita anche il silenzio. La seconda nozione di fondamentale importanza è il concetto di “Doppio legame”, tratto dal pensiero ecologico di Gregory Bateson. L’autore lo ha originariamente sviluppato con alcuni colleghi, più di sessanta anni fa, nell’ambito di una teoria della schizofrenia incentrata più sulle relazioni familiari patologiche e sulla comunicazione che non sui fattori biologici. Un doppio legame è un tipo di comunicazione che si confuta da sé, come quando si dicono contemporaneamente due cose tra loro incompatibili. Una persona che cerca di rispondere a un doppio legame non sarà mai in grado di farlo correttamente, poiché, qualsiasi cosa faccia, essa potrà essere giudicata sbagliata (Silvano Tagliagambe).
  1. L’estetica del Sublime e il concetto psicoanalitico di sublimazione, opportunamente riletto, possono interagire in modo da illuminarsi reciprocamente. Ciò che otteniamo è, da un lato, una comprensione più penetrante dell’essenza dell’esperienza estetica nell’arte, dall’altro, una visione più convincente di come si svolge il processo del diventare soggetti. Infatti il primo barlume di autocoscienza si accende in una dimensione prettamente estetica, nel senso etimologico del termine, cioè in uno spazio fatto di sensazioni. Tale spazio, denominato “chora semiotica” da Julia Kristeva, è al tempo stesso dinamico e intersoggettivo – in altri termini, benché intessuto di sensorialità, non può comunque prescindere da una cornice simbolica. Per illustrare questa area tematica, è opportuno esaminare due esempi di sublime contemporaneo, il film di Kim Ki-duk intitolato Pietà, e alcune opere monumentali di Richard Serra (Giuseppe Civitarese).
  1. È possibile dunque proporre una generale rilettura dell’esperienza analitica in chiave estetica, centrata sulle caratteristiche dello “sguardo-attraverso”. La prospettiva filosofica di Emilio Garroni può fungere da cornice teorica. Attraverso questo percorso si approderebbe a una sorta di realismo trascendentale in cui, pur restando ancorati al mondo sensibile e condiviso, si determina una trascendenza estetica: un vero e proprio attraversamento del senso mediante i sensi. Ed emerge così una disposizione sinestetica che, tornando sulla terra, trasforma la metafisica in dia-fisica e la talking-cure in arte (Elena Gigante).
  1. Si può inoltre descrivere l’avventura che la parola può esperire nelle sue diverse declinazioni di senso: per un verso, la parola stentorea, che si dà sicura, densa di verità incontrovertibili, come ci viene dal Cratilo di Platone o dal Diavolo di Dürer. Di contro, la parola puramente convenzionale, prossima ad annichilirsi nella vacuità gorgiana: la parola, così ci appare, dell’Ermogene platonico o della Morte raffigurata da Dürer. Dal confronto delle due, infine l’apertura a una terza possibilità: è la parola che viaggia nella cosa che esprime, la parola esperienza, mai ferma, gravida di un senso infinito; incurabile, nell’accezione ricavabile dalla riflessione dantesca (forse, proprio per questo, paradossalmente, strumento capace di cura) ovvero indisponibile a ridursi tra le maglie strette della grammatica. Ove grammatica è icona di pensiero fermo, di teoria stantia, timorosa della vita, come può certo anche divenire la teoria che l’analista maneggia (Francesco Di Nuovo).
  1. Alla fine del fascicolo, viene proposto il glossario di un lettore. Esso, per essere tale, deve necessariamente contenere qualche elemento di finzione, perché una descrizione realistica finirebbe per violare il suo segreto. Ogni voce commenta, in ordine alfabetico, le passioni, le manie, i vizi, i rituali e i libri che hanno segnato il percorso del lettore protagonista: da Poe, a Borges, ad Augusto Monterroso; dalla vocazione precoce alla lettura, all’amore per i cataloghi; dall’equipaggiamento del vero sottolineatore, al suo desiderio di solitudine; dalla meraviglia della prima biblioteca, ai libri prestati che nessuno gli ha più restituito (Antonino Trizzino).

Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

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