Editoriale/ Sergio Vitale, “Una macchia d’inchiostro di Freud. Note sulla conoscenza dell’evento”/Mario Trevi, “Configurazioni e metafore della psicoterapia e dell’analisi”/Carlo Sini, “I segni della salute”/Arnaldo Ballerini e Mario Rossi Monti, “Delirio, scacco gnoseologico, limiti della comprensibilità”/Mariano Bianca, “Téchne o episteme: quale stato della psicoterapia?”/Remo Bodei, “Un episodio di fine secolo”/Fausto Petrella, “Il messagggio freudiano e la psichiatria del presente”/Piero Fidanza, “Lutto e perdita del soggetto”/Alessandro Barchiesi, “«Atque» e atque (con gli auguri di un filologo)”
C’è un nesso profondo che giustifica l’accostamento, che sulle pagine di questa rivista vuole essere mantenuto in senso programmatico, tra processo della conoscenza scientifica e psicoterapia, pur nella generalità della loro definizione e nella pluralità anche contraddittoria delle diverse strategie e dei risultati. Esso riguarda, più d’ogni altra cosa, il fine ultimo in vista del quale si organizza e si dispiega tanto l’impresa conoscitiva quanto l’attività psicoterapeutica, e che consiste, se non nell’eliminare, almeno nell’attenuare e nel comprendere quei sentimenti di paura e di angoscia che dominano il fondo dell’esistenza.
Se si pone attenzione al carattere intrinsecamente oggettivo dell’esperienza – dove tale attributo rimanda unicamente al fatto che la condotta è incessantemente sottoposta a delle collisioni con un ‘qualcosa’ che viene gettato (obiectum) dinanzi al nostro cammino – si può comprendere come la paura debba essere un sentimento che inerisce strettamente alla condizione umana. (Di questo, traccia profonda sta nel nesso che lega pavere, ‘aver paura’, a pavire, ‘battere’, ‘percuotere’, e che si rispecchia nel termine pavore(<m>).
Gli urti e le collisioni in cui si attuano le resistenze offerte da un ambiente di vita, e che riverberano il soggetto epistemico nella sua posizione costitutiva di essere ‘sotto posto’, conferiscono all’esperienza il suo radicale aspetto di pericolo. (Qui si ricordi come periculum rimandi, attraverso un supposto verbo periri, ad experiri, che vuol dire, appunto, ‘fare esperienza di’, ‘tentare’).
È in questa prospettiva che diventa possibile affermare che il pensiero è una paura la quale si è attrezzata metodicamente, e che ogni teoria si presenta come indice di una sottostante disfunzione radicata in un preciso contesto. Sia che intervenga sul piano della condotta collettiva come su quello dell’esperienza più personale e privata, il valore di qualsiasi strategia conoscitiva sembra consistere nella possibilità di agire terapeuticamente, ovvero, in ultima istanza, di eliminare la sua stessa ragione di sussistere come teoria.
Ma in questo si cela quello che si potrebbe chiamare il paradosso della conoscenza e al tempo stesso il suo pericolo mortale. Se infatti la ‘presa di coscienza’, in quanto risolutrice all’interno di situazioni problematiche, disfunzionali o anomale, avviene unicamente sulla base della divaricazione del nesso teoria-prassi (la cui assenza è proprio ciò che caratterizza il sapere quotidiano come doxa), è tuttavia insito nella sua stessa capacità di essere coronata da successo il rischio della ricomposizione della immediatezza teoria-prassi e il conseguente occultamento dell’atto di consapevolizzazione nella sua natura puramente simbolica.
Ci troviamo di fronte al problema della rimozione della consapevolezza della teoria, come costruzione sul terreno della paura. Tale rimozione conduce alla affermazione di modelli naturalistici e alla definizione della ricerca scientifica in termini di mero rispecchiamento o di descrizione ingenua di proprietà di enti e processi, in quanto espressione di un ordine inteso come già dato e immutabile. Oppure consegna a quel sentimento di evidenza, che è tutt’uno con il sentimento di verità e di certezza, sulla cui base si edifica tanto il dominio dell’ovvietà quanto quello di una razionalità astratta, a priori e necessitante.
A questa rage de vouloir conclure, in grado di rassicurare fortemente nel momento in cui consente di affermare io so tutto, «Atque» intende contrapporre l’avvertimento di chi sostiene che, nella corsa della conoscenza, vince chi sa correre più lentamente e raggiunge il traguardo per ultimo.
Non guardando ad un Sapere che concluda la pluralità delle discipline, «Atque» vuole assumere come proprio oggetto la complessità di quello spazio che si costituisce tra la chiusura di ogni discorso e l’apertura di un discorso ulteriore. È lo spazio dove le teorie muoiono – una volta che sia stata confusa la loro natura di semplice dispositivo per osservare con il risultato stesso dell’osservazione – per far posto ad automatismi epistemologici e a schemi irriflessi di azione; ma dove anche nuove teorie si preparano, dinanzi a rinnovate richieste di senso, per poter vedere di più e oltre il limite segnato.
La congiunzione latina che nomina la rivista designa il punto di connessione non eclettica tra elementi distinti. Attraverso i suoi vari significati, atque apre intenzioni che vanno dalla unificazione di due proposizioni alla coordinazione delle stesse. Inoltre rileva opposizioni che comunque non si disgiungono né si escludono: permette a ciò che è stato appena detto un’ulteriorità di tempi e di significati; allarga comparativamente la ‘frase’ precedente; non sottrae alla responsabilità di esplicitare conclusioni e conseguenze.
Forzando il nesso d’immediatezza tra teoria e prassi che può nascondersi al fondo della filosofia, della ricerca scientifica e dell’esperienza quotidiana, «Atque» si pone come strumento per riflettere e pensare il problema della fondazione dialogica della conoscenza pubblica e privata, e si apre al confronto delle interpretazioni che emergono attraverso le varie forme dei saperi e il gioco dei loro sconfinamenti.
Paolo Francesco Pieri