5/1992
NARRAZIONE E CONOSCENZA

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INTRODUZIONE/Carlo Sini, “Narrazioni e suoni di flauto”/Gianfranco Trippi, “Shahrazàd e la psicoterapia”/Mario Lavagetto, “Dall’Accademia spagnola al romanzo storico. Appunti sulla spiegazione e sulla messa in intreccio nell’opera di Freud”/Bruno Ferraro, “Arte combinatoria e processi di pensiero nelle Città invisibili di Italo Calvino”/Franco Rella, “L’arte e il pensiero. Il pensiero dell’arte”/Maria Consuelo Ugolini, “Ricerca di senso e psicoanalisi in Wittgenstein”/Stefano Fissi, “L’orientamento prospettico-narrativo nella psicologia del profondo”/Giovanni Stanghellini, “Percorsi psicopatologici. La disforia e il tragico”/PENSARE LE REGOLE/Dialogo con Hans Georg Gadamer (a cura di Baldassarre Caporali)

 

C’entrano, e a che condizione c’entrano, gli aspetti narrativi nella conoscenza? Il narrare è già una forma di conoscenza? Esiste ancora una primarietà dell’uomo che conosce fuori dalle storie? Tutto è necessitato o si può sottolineare la contingenza della storia?

Inoltre, possiamo accettare e – se sì – a che titolo, la natura affabulante del pensiero che autori come E. Bloch e P. Ricoeur hanno in questo secolo variamente indicato? E viceversa, nelle forme tipicamente figurative e narrative, c’è implicito un pensiero che solo uno sguardo culturalmente condizionato ci impedisce di cogliere?

E ancora, la narrazione è tutto o una tappa nel linguaggio del processo veritativo? Vanno bene, insomma, qualsiasi storia e qualsivoglia ricostruzione ipotetica? O, riflettendo su N. Goodmann e sull’ultimo U. Eco, che cosa veramente pone una restrizione a qualsiasi storia?

In altri termini, e andando ancora oltre, il problema di un’altra storia che duri e persista di fronte e dentro la storia, è ancora risolvibile con la tematizzazione di una pluralità di storie esistenti in sé (eclettismo), o con la problematizzazione dell’esistenza di quella collisione, a sua volta evocabile e indicabile, che metta contemporaneamente in scena più storie che confliggono?

Insomma, attraverso quali “regole” guardiamo? E possibile un pensiero creativo dentro le regole?

In tali questioni, orecchie addestrate alla psicoanalisi e alla psicoterapia hanno già colto le serie problematiche sia di ogni interpretazione nell’attività clinica, sia dell’interpretazione della clinica stessa.

Questi temi, infatti, per l’intonazione che acquistano in tali pratiche, si traducono in domande di quest’altro tipo: c’entrano, e a che condizione, gli aspetti narrativi nella conoscenza che ogni terapeuta costruisce di sé e dell’altro? Il narrare un caso clinico equivale a conoscerlo? C’è una primarietà dello psicoterapeuta che conosce quel che la persona in terapia ancora non conosce? Tutto è necessitato da un a priori (complesso edipico, archetipo, ecc.), o si può sottolineare la contingenza della storia anche nell’evocazione e nella fondazione di un ipotetico sfondo che le parole del terapeuta hanno aperto (da qui la responsabilità etica di ogni interpretazione)?

Inoltre, possiamo accettare, e a che titolo, la natura mitopoietica della ragione? Viceversa, nelle forme tipicamente figurative e narrative (sintomi, immagini, sogni, deliri e percezioni curiose) c’è già esplicito un pensiero che non necessita di un’ulteriorità interpretativa, e che solo lo sguardo culturalmente condizionato della coscienza impedisce di cogliere?

E allora, la narrazione è tutto o una tappa del processo veritativo della psicoterapia e del suo linguaggio? Ancora una volta: vanno bene qualsiasi storia e qualsivoglia ricostruzione ipotetica, o esiste veramente qualcosa che pone una restrizione a qualsiasi storia?

A partire da qui o, meglio, dall’interno di queste domande colte nella loro cosiddetta ricaduta pratica, è possibile leggere e pensare i contributi di questo fascicolo.

Paolo Francesco Pieri

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