a cura di Mauro La Forgia e Maria Ilena Marozza
INTRODUZIONE/Mauro La Forgia, Maria Ilena Marozza/IMMAGINI E PAROLE. CONTAMINAZIONI PERSUASIVE/Pietro Conte, “Metapherein. Il paradigma metaforico tra parola e immagine”/Graziella Berto, “Immagini di pensiero”/Mauro La Forgia, “Le immagini come prassi dell’eccedenza”/Michele Di Monte, “Metafore vi(si)ve? I limiti del linguaggio figurato nel linguaggio figurativo”/Tonino Griffero, “Forte verbum generat casum. Espressione e atmosfera”/L’ESPERIENZA DELLE IMMAGINI/Paolo Spinicci, “Immaginazione e percezione nell’esperienza pittorica”/Antonino Trizzino, “La fisica dell’immagine. Sguardo anatomico e sguardo poetico”/Elio Franzini, “Arte, parola e concetto”/Elena Gigante, “Del miraggio, della trasparenza. Le immagini sonore tra limite e sacro”/IMMAGINI E CURA/Gerardo Botta, “La traducibilità trasformativa del linguaggio”/Angiola Iapoce, “L’incompletezza dell’umano: configurare, costruire, testimoniare”/Gaetano Benedetti, Maurizio Peciccia, “Il disegno speculare catatimico”
[Anteprima del numero in cui sono visibili le prime pagine di ogni articolo.]
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Il dibattito sulle immagini si è sviluppato, negli ultimi anni, in modo molto intenso. In questo fascicolo di Atque vorremmo affrontare questo tema con un’angolazione particolare, occupandoci degli effetti di senso prodotti dalle intersezioni, nelle pratiche comprensive umane, di immagini e linguaggio. Come è tradizionale per la nostra rivista, svilupperemo questa riflessione attraverso il confronto tra coloro che frequentano le immagini nel dialogo psicoterapeutico e coloro che ne affrontano definizione e statuto sul piano della riflessione filosofica.
Come psicoterapeuti, pratichiamo quotidianamente quei modi della comunicazione nei quali le immagini entrano ed escono dal linguaggio, producendo effetti di rilievo nella capacità delle persone di esprimere significati di difficile delimitazione, oltre a sentimenti e sensazioni d’intensità non riducibile. Le immagini si presentano con tali caratteristiche di ambiguità da imporre inevitabilmente il tema della loro incerta presenza a ogni coscienza interpretativa che voglia dirsi aperta. Paradigmatico è, in questa prospettiva, il modo in cui il sogno, con le sue concrete e dirompenti sensorialità, estranee all’ordinarietà del sentire, penetra nella nostra quotidianità e diviene elemento essenziale di comprensione e autocomprensione, di orientamento, di cura. Ma il pensiero va anche a quel coacervo di immagini che affollano la nostra mente ogniqualvolta ci si sforzi di esprimere concetti sfuggenti, o si intercettino espressioni che stimolano l’immaginazione e inducono altre immagini, ovviamente a loro volta produttive di emozioni e sensazioni.
La talking cure, in sintonia con lo spirito della contemporaneità, è stata recentemente attraversata dall’aura rinnovatrice dell’iconicturn: si potrebbe davvero dire, seguendo la tesi di Gottfried Boehm,che l’imperialismo della parola, che ha dominato la concezione della cura fino ad anni recenti, è stato spezzato, proprio come nel secondo Wittgenstein, dall’approfondimento delle funzioni della parola stessa, da cui è scaturita una «problematizzazione del linguaggio che ha dato vigore alla potenza figurativa insita in esso e ha condotto il linguistic turn a un iconic turn» (G. Boehm, La svolta iconica (2009), trad. it. Meltemi, Roma, p. 42).
Certamente, oggi in psicoanalisi non abbiamo più a che fare con atteggiamenti decifrativi delle immagini, tendenti a ricondurle a un significato verbalmente rappresentato; piuttosto, la capacità figurale del sogno, e delle immagini in genere, viene enfatizzata come l’emergere di un’eccedenza che non trova (ancora) posto nel discorso. Analogamente, il “primato della parola” sembra oggi sopraffatto da un “primato dell’ascolto” che va ben oltre la comprensione dei significati del discorso dell’altro, rivolgendosi piuttosto alla recezione di aspetti non verbali, emozionali o prosodici, capaci di orientare più profondamente la comprensione.
Come in ogni momento di svolta, l’enfasi rischia però di travolgere il sistema, e di sostituire il vecchio imperialismo con semplificazioni sommarie, tendenti a conferire all’immagine supremazie, anteriorità, autonomie, pregnanze, felicità, che sottovalutano il complesso gioco di intersezioni tra linguistico e immaginale, nella presenza così come nell’esperienza umana. Ci sembra in particolare che la psicoanalisi si macchi spesso del peccato originale, già compiuto dai suoi padri fondatori, di voler corroborare le proprie osservazioni rinviandole a un passato filogenetico o a un’ontogenesi desunta dal presente analitico. Appoggiarsi a un paleolitico homo imaginans per sostenere l’originarietà del figurativo, così come affermare la primarietà dell’estetico nello sviluppo infantile, o più in generale nell’esperienza umana, non aggiunge nulla, se non un’enfasi retorica, alla comprensione analitica; soprattutto, ci sottrae dal compito ben più centrale di indagare sul modo complesso, non derivativo, in cui si embricano e si arricchiscono reciprocamente, in una relazione aperta e asimmetrica, il linguaggio e le immagini. In questo senso, quando parliamo di originarietà dell’immagine – e sottolineiamo i caratteri di immediatezza e pervasività, di nuova apertura, di quest’ultima – affermiamo un dato fenomenologico; non genetico, né tanto meno storico.
Se una delle conquiste più importanti della psicoanalisi è la presentazione di un uomo a più dimensioni e di una temporalità non lineare, in cui passato e origine risultano fenomeni emergenti nella Nachträglichkeit, il contributo più importante della svolta iconica consiste nel favorire un aumento di attenzione e di sensibilità a un linguaggio immaginante quale strumento altamente specifico dell’animale uomo. Un linguaggio – e questo è il secondo aspetto che ci sembra vada sottolineato – in cui la declinazione visiva dell’immagine è soltanto uno dei modi in cui si presenta l’attività immaginativa, peraltro in grado di esprimere le proprie peculiarità, anche se in modo più difficile da cogliere, attraverso il polimorfismo delle differenti vie sensoriali. L’attuale riscoperta del visivo, sicuramente giustificata dalla penalizzazione a esso imposta dal setting analitico, rischia di concentrare eccessivamente la ricerca su un prevalente canale sensoriale e sulle sue specifiche caratteristiche, limitando ogni possibile ampliamento interpretativo delle qualità e delle funzioni dell’immaginazione. Se analogamente all’impossibilità di concepire un pensiero e un linguaggio senza immagini consideriamo altrettanto impensabile una psiche priva di immagini, resta comunque aperta la questione di una valorizzazione non enfatica della complessità in cui viviamo e del senso di una esperienza permeata dalle molteplici funzioni del nostro indivisibile essere psicocorporeo.
Il nostro punto di osservazione di praticanti della talking cure ci pone dunque nella condizione di prediligere un approccio alle immagini che valorizzi il loro legame con il linguaggio, e che si soffermi sul loro decisivo contributo alla significazione, amplificando la già naturale qualità configurante del linguaggio. Ma ci pone anche nella fortunata condizione di assistere ai momenti sorgivi delle rappresentazioni immaginative come a una prerogativa della soggettività, come a momenti in cui ogni individualità si appropria di quel nucleo di capacità creativa che consente di curvare il linguaggio a un senso inedito, offrendo al linguaggio stesso le forme sensibili che scaturiscono dalla nostra esperienza corporea. Crediamo che tutto questo appartenga al potere delle immagini, tanto da poter pensare che la dialettica tra immagine e parola sia una delle dimensioni fondamentali per rappresentare le potenzialità trasformative della talking cure nell’evoluzione personale.
Ci interessa dunque soffermarci non tanto su differenze iconiche, o su parziali o totali autonomie, epistemiche e logiche, dell’immagine – argomenti che pure rappresentano punti di partenza irrinunciabili – ma sulle interazioni tra immagine e parola che danno forma al linguaggio immaginante: a un linguaggio, cioè, vivo, parlato da un soggetto e profondamente radicato nella paticità della sua esistenza. Un linguaggio che, nella sua polivalenza e irriducibile multidimensionalità, ci appare come la più sofisticata delle conquiste della forma di vita umana.
Ci sembra che questo possa avvenire secondo varie direttrici. In primo luogo, attraverso la disponibilità a passare dall’affermazione dell’irriducibilità alla sfera linguistica della sfera sensibile a una analisi più attenta dei modi in cui queste dimensioni, apparentemente discordanti, convergano nella genesi del senso. In secondo luogo, soffermandoci sulla capacità delle immagini di disporsi nelle zone di confine da cui procede la definizione di sé e del mondo e di stimolare il pensiero verbale a una continua rimodulazione delle polarità soggettive e oggettive. In terzo luogo, affrontando l’indefinitezza semantica e percettiva delle immagini come elementi virtuosi di provocazione che trovano nel linguaggio il loro legittimo destinatario. Ci sembra, da questo punto di vista, che la disomogeneità sensopercettiva e l’indefinitezza semantica siano valori che vengono a maturazione proprio nei tragitti che le immagini impongono al pensiero verbale, confrontandolo continuamente con la propria insufficienza e incompiutezza.
Pensiamo che l’approfondimento di queste tematiche possa costituire un apporto significativo alla chiarificazione delle capacità terapeutiche del linguaggio e a una concezione della talking cure più vicina alla nostra esperienza diretta. Il nostro lavoro di narratori dell’esperienza soggettiva ha a che fare con l’incessante tentativo di trasformare l’irrappresentabile in rappresentazioni che possono essere elaborate nel linguaggio. Le immagini, con la loro capacità di rendere visibile, seppure per un attimo, l’invisibile, costituiscono modi per presentificare sensorialmente quelle assenze che ci occupano, rappresentano ponti sui quali la nostra coscienza verbale può sporgersi verso l’invisibile, fonte di angoscia come pure di creatività.
Mauro La Forgia e Maria Ilena Marozza