Il fico sterile e l'”uomo-comunità”.
Andava da Betania a Gerusalemme,
oppresso anzi tempo dalla tristezza dei presentimenti.
Sull’erta un cespuglio riarso; fermo Il su una capanna il fumo,
e l’aria infuocata e immobili i giunchi
e assoluta la calma del Mar Morto.
E in un’amarezza più forte di quella del mare,
andava con una piccola schiera di nuvole
per la strada polverosa verso un qualche alloggio
(andava) in città a una riunione di discepoli.
E così immerso nelle sue riflessioni
che il campo per la melanconia prese a odorare d’assenzio.
Tutto taceva. Soltanto lui là in mezzo.
E la contrada giaceva inerte in un deliquio. Tutto si confondeva: il calore e il deserto,
e le lucertole e le fonti e i torrenti.
Un fico si ergeva lì dappresso
senza neppure un frutto, solo rami e foglie.
E lui gli disse: “A cosa servi?
Che gioia m’offre la tua aridità.
Io ho sete e fame, e tu sei un fiore infecondo,
e l’incontro con te è più squallido che col granito.
Come è offensiva la tua sterilità!