Critica del metodo e utopia pluralista del relativismo di P.K. Feyerabend

di Luciano Handjaras
«atque», 10, 1994, pp. 127-141

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«Ammetto di mirare a qualcosa che può essere un’utopia. Ma vedi, non voglio rimpiazzare i maniaci di una sorta con i maniaci di una sorta differente: gli ebrei con i cristiani, i dogmatici con gli scettici, gli scientisti con i buddisti. Voglio mettere fine a tutti i fanatismi e a tutti gli atteggiamenti umani che incoraggiano la pazzia e facilitano il suc cesso dei suoi profeti»’. Così, Feyerabend ha indicato l’obiettivo più importante e il senso di un suo impegno nel dialogo filosofico: la lotta contro ogni tipo di assolutismo e la difesa del valore di una libertà che sia innanzi tutto mentale. Al tempo stesso, egli ha riconosciuto aperta mente il carattere utopico della propria prospettiva, intravedendone il rischio: che quell’impegno si risolva in pura tenione negativa e si esaurisca solo in astratta opposizione ad ogni visione del mondo, sia essa scientifica o estetica o politica, che pretenda di affermarsi come esclusiva o privilegiata. Ma egli è convinto senza riserve che anche dietro la richiesta di un’immediata ed evidente “costruttività” della critica possa ancora celarsi la pretesa implicita di una pregiudiziale deli mitazione di senso, e che in essa continuino ad agire i residui di un “ardente desiderio” di assoluti. L’ansia del positivo e del certo, il bisogno di additare lo sbocco ultimo, di trovare risposte sicure e definitive, di appoggiarsi ad un fondamento solido, immutabile, sono l’antica ossessione da cui liberarsi. Solo correndo il rischio di una radicale non conclusività del confronto tra voci diverse può essere data subito sostanza al valore della libertà e si può iniziare a rendere concreta l’utopia di un reale pluralismo.

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