Inquadramento antropologico dell’esperienza d’incontro con lo psicotico

di Bruno Callieri
«atque», 13, 1996, pp. 61-86

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Un secolo fa lo psichiatra, determinato univocamente nell’ambito positivista e dal modo di pensare naturalistico, finiva per esaurire tutto il suo agire psichiatrico nell’atto dell’obiettivazione, reificando il paziente, spersonalizzandolo e soffocandolo in toto nell’anonimato di categorie etiopatogenetiche e nosologiche, di classi e classificazioni, secondo i canoni di un pensiero puramente nomologico.

Tale atto soddisfaceva appieno il suo operare, che restava essenzialmente adialogico, tutto conchiuso nella “spiegazione” e nell’identificazione causale psiche-cervello. La nota tesi griesingeriana (1863) “le malattie mentali sono malattie del cervello” veniva indebitamente assolutizzata, in un’ottica di medicalizzazione radicale dell’uomo sofferente psichicamente e/o disturbato nel comportamento.

Con ciò non si vuol dire che la psichiatria non sia anche una neuroscienza, cioè non debba anche avvalersi di impostazioni, di approcci, di procedimenti e di metodi neurologici: basti pensare all’importanza innegabile e sempre crescente degli studi sulla fisiologia e patologia dei neurotrasmettitori, alla psicoendocrinologia, ai rapporti tra gli effetti neurofarmacologici e i modelli comportamentali. Fondamentale, per quest’impostazione, è il recente volume di Patrizia Chierchland e T. Sejnowski dal titolo Il cervello computazionale. (Il Mulino, Bologna, 1995).

Ma, anche se va riconosciuto ilfecondissimo orizzonte del naturalismo psichiatrico (psichiatria biologica, neuroscienze), non si puòcadere nel riduttivismo e nell’equivoco metodologico, così chiara mente delineato e denunciato (ormai molti anni fa) da Ludwig Binswanger.

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