Jaspers, le rovine di Nietzsche

di Fabio Polidori
«atque», 22, 2000, pp. 183-196

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Serve un breve preambolo. Per dire anzitutto che forse, per parlare del Nietzsche di Jaspers e prima di far entrare in scena quest’ultimo, si dovrebbe partire da Nietzsche. Incominciando cioè da quella impressione, magari vaga e strana, che si riceve leggendolo; e soprattutto leggendolo attraverso i percorsi segnati da tutte, o tante delle interpretazioni che Nietzsche ha avuto. L’impressione che – al di là delle molte, nel suo caso moltissime versioni che ne abbiamo ereditate, pur estreme e tra loro in contrasto – qualcosa sia sempre riuscito a sottrarsi, come nucleo residuo, come sostanza, come identità. Qualcosa che comunque ci permette di riconoscere Nietzsche, un suo testo o una certa quale aria nietzscheana, subito, da appena un accenno. Niente di strano, si potrebbe subito replicare: vale anche per altri, i grandi, tutti i grandi (forse tali anche per questo). A differenza che, forse, nel caso di Nietzsche, questa sostanza e identità sembrano destinate a restare alquanto inutilizzabili. E non solo a fini argomentativi generali o estrinseci; espressioni del tipo “come sostiene Nietzsche”, “come afferma Nietzsche” e simili non sono molto frequenti; magari anche perché se proviamo ad applicarle in chiave argomentativa ad alcuni dei luoghi più importanti e famosi del suo pensiero – per esempio: “Dio, come sostiene Nietzsche, è morto”, “Nietzsche afferma che il deserto cresce” -l’effetto di ilarità diventa assai probabile. E anche se lo scopo è solo di rendere più comprensibile il suo pensiero per così dire dall’interno, quella sostanza, o quell’aria nietzscheana rischiano di restare un residuo inutilizzabile.

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