Tabù, paure e soggettività. Un percorso antropologico

di Claudia Mattalucci
«atque», 23-24, 2001, pp. 73-94

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In uno dei suoi saggi, Michel de Montaigne osservò come la paura, la “strana passione” che alternativamente mette le ali ai piedi o paralizza, non colpisca soltanto il volgo ma anche i guerrieri più valorosi. E se essa è comprensibile presso l’uomo comune, per il quale il mondo è popolato di fantasmi, morti viventi, lupi mannari, folletti e altre chimere, sorprende che anche gli eroi, i soldati e i gentiluomini possano esserne preda. La paura ottunde le loro qualità distintive: la prontezza, il coraggio, l’onestà e la capacità di giudizio. L’addestramento militare e la cultura non sono dunque di per sé sufficienti a mettere al riparo gli uomini da questa passione capace d’avere la meglio sugli altri sentimenti e sulla ragione stessa. Talvolta, afferma l’autore, i privilegi sono fonte di paura e possono togliere il sonno e l’appetito a chi li detiene e teme di perderli; cosicché, mentre i poveri, gli esuli o i servi possono vivere con altrettanta gioia degli altri, coloro che temono di perdere i propri beni, di esser banditi dalla propria terra o soggiogati, vivono in un perenne stato d’angoscia.

Montaigne non soltanto osservava l’universalità della paura, ma riconosceva il legame che essa intrat tiene con la vita sociale e con la cultura.

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