Sul ridere in alcune prospettive religiose

di Adriano Fabris
«atque», 2 n.s., 2007, pp. 93-104

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Vari modi di ridere

 

Aristotele sostiene che l’uomo è l’unico essere vivente in grado di ridere. Ciò è dovuto al fatto che egli è capace – vale a dire, che noi siamo capaci – di prendere le distanze dal mondo, dagli altri uomini, da se stesso. Anzi: in questa peculiare capacità di distanziamento sta, per Aristotele, lo specifico dell’umano. Ed è appunto perciò che Gadamer avvicina quest’osservazione all’altra tesi aristotelica, peraltro più nota, per cui l’uomo è l’animale dotato di logos: è l’essere, cioè, capace di linguaggio. Nell’uno e nell’altro caso, nel discorrere e nel ridere, è infatti in gioco una peculiare presa di distanza. Essa vie ne ottenuta, per un verso, attraverso il filtro delle parole, per altro verso, mediante la trasformazione del mondo in spettacolo. La realtà sembra così il frutto di una messa in scena. E proprio in virtù di questa trasformazione essa perde il suo potere di «fare pressione» sul l’individuo, di coinvolgerlo e, magari, di angustiarlo.

Questo stesso carattere di distanziamento è sottolineato da Berg son nel suo famoso libro sul riso. Anche Bergson sottolinea il fatto che è solo l’uomo l’animale che sa ridere. E anche lui – sebbene pri vilegi nei suoi tre studi la tematica del comico come scaturigine del riso, piuttosto che, ad esempio, la dimensione dell’ironia – mostra come il riso si colleghi a un certo tipo di estraneità: sia cioè una sorta di reazione di fronte ad essa. In ciò consiste, potremmo dire, l’aspetto “terapeutico”, addirittura, per alcuni versi, “esorcizzante” di una “sana” risata. In ciò emerge quella funzione sociale che Bergson sottolinea.

 

 

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