Alla scoperta dell’America: cecità, sinestesia e plasticità percettiva

di Marco Mazzeo
«atque», 5 n.s., 2008, pp. 117-130

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In che senso è corretto affermare che l’Homo sapiens è un anima le plastico? Quale aspetto della sua corporeità garantisce agli umani un grado di variabilità di comportamento così elevato che anche il naturalista più riduzionista non può evitare di notare?

Nella letteratura di taglio neuroscientifico e cognitivo circolano nozioni di plasticità sensoriale, molto diverse tra loro. La mia impressione è che, intorno alla nozione di plasticità, sia necessario fare un lavoro di chiarificazione filosofica, per evitare che il vaticinio di Wittgenstein a proposito della ricerca psicologica contemporanea (“metodi sperimentali e confusione concettuale”) continui a realizzarsi. Per questa ragione può essere utile cominciare a discutere del problema (questo saggio non mira a fare di più), prendendo in esame un dato circoscritto in grado di sfuggire a proclami che, altrimenti, rischiano di risultare ideologici. Un libro recente sulla plasticità cerebrale approfondisce, ad esempio, i connotati di un dato noto già da diversi anni: durante lo svolgimento di compiti tattili nei soggetti ciechi si attivano aree visive. Si tratta di un esempio di plasticità cerebrale ormai diventato un piccolo classico, che cela però più di una insidia teorica. Il cervello del cieco può costituire un primo banco di prova per capire in cosa consiste la plasticità organica di quell’animale che chiamiamo Homo sapiens, magari non per trovare accordo unanime ma per sapere, almeno, da che parte stare. Come interpretare, infatti, il dato appena menzionato? A tal propo sito, esistono per lo meno due possibilità teoriche.

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