Coscienza e sogno in psicoterapia

di Amedeo Ruberto
«atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 201-210

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Mi è stato chiesto di esporre qualche considerazione sul tema della relazione tra coscienza e inconscio ma ho dovuto aggiungere nel titolo la specificazione di un contesto sperimentale e finalizzato a un qualche tipo di cambiamento positivo come quello della psicoterapia (avrei dovuto aggiungere junghiana e poi forse: per quanto attiene alla mia esperienza personale). Ho infatti l’impressione che al di fuori di quel contesto, non si sappia bene cosa farsene dei sogni e, francamente, interpellati alcuni validi colleghi, appare forte e consistente l’affermarsi di un atteggiamento per lo meno insofferente, perplesso e un po’ stanco a fronte del sognare come se si resuscitasse un vetusto e inconsistente problema cui bisogna pur dare una risposta, da un lato per una sorta di devozione di scuola – perché così si è storicamente cominciato – e dall’altro per una conseguente e talora insulsa, incomprensibile e temuta richiesta del paziente: “dottore, che vuol dire questo sogno?”. Sembra perciò di dover pagare un qualche dazio di appartenenza a un movimento che ha fatto della presupposizione dell’inconscio e dell’analisi dei sogni il punto d’origine e il fondamento del proprio manifesto identitario.

Insomma, tornare a parlare di sogni è piuttosto scomodo e per molti aspetti anacronistico e spiacevole, tanto che chi scrive deve farlo a titolo personale e non come rappresentante di una modalità effettivamente contemporanea di approccio conoscitivo del “mentale”. 

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