I “materiali” di «atque» presentano questo testo che Giulio Preti compose nel ’68, e quindi negli anni dove la filosofia andava riflettendo, approfonditamente e talora anche drammaticamente, su tale tema. E lo compose a partire dall’idea che, nella modernità, la democrazia sia innanzitutto cultura e quindi qualcosa che vada affrontata non già in sé bensì all’interno del problema dei valori – dove risuonano sì i problemi della morale ma, con toni ancora più alti, quei problemi della conoscenza e della ragione scientifica che la dialettica storica ogni volta veicola. È dentro una cornice di riflessioni intorno sia a fatti e valori, sia a conoscenza ed etica, sia a eticità e moralità, sia a persuasione razionale e consenso, che Giulio Preti intende infatti far valere una prospettiva oggettivante la quale mostra come ogni giudizio ideologico, carico di emotività, non si sottragga mai alla contingenza né possa vantare un respiro autenticamente morale. E attraverso questa impostazione teoretica assume il risentimento come fatto morale e sociale. Emblematicamente il risentimento sarebbe provocato da un giudizio ideologico e umorale: una “reazione emozionale di ostilità” nei confronti di quei valori che non appartengono al gruppo umano o alla classe di cui fa parte il soggetto risentito. Esso nascerebbe da “un odio impotente e represso”, ovvero da un desiderio di vendetta inappagato o di invidia profonda. E sarebbe alimentato da una “memoria infetta” (come vorrà chiamarla Edgar Morin) che è in grado di provocare un rovesciamento dei valori – solo perché quei valori non appartengono al soggetto che se ne sente escluso. Proprio il risentimento sarebbe ciò che genera una forma di conformismo morale che è sostanzialmente un rifiuto della morale stessa: vale a dire un conformismo che non pervenendo a una critica razionale dei valori, rispecchierebbe il punto di vista di persone né libere né autodeterminate nel giudizio. Per questa via il conformismo sarebbe addirittura da considerare l’effetto dell’astuzia di un sistema di potere che vuole durare: «l’uomo che la struttura sociale condanna a essere uomo di massa afferma che solo la massa è valore». E così, à la Scheler, il risentimento finirebbe con il diventare figlio di un egualitarismo malinteso: il desiderio di eguaglianza che esso veicola, sarebbe il desiderio di chi stando più in basso o temendo di precipitare in basso, degrada coloro che stanno in alto. E l’etica puramente negativa di chi si rivolge contro “il sistema” e contro i suoi valori favorirebbe una logica settaria che negando l’intersoggettività e l’interazione dialogica (sia pure conflittuale), creerebbe per l’appunto gruppi chiusi, a matrice fortemente identitaria, che non prospettano un diverso “cosmo di valori”, ma semplicemente si estraniano dall’ethos che vige – e così facendo ne consacrano l’esistenza.
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