Riflettendo sulla voce, non si può non porre attenzione alle interazioni precoci tra il bambino e chi se ne prende cura. È in tali scambi che è possibile percepire nitidamente come vengano a darsi comportamenti multimodali (vocalizzazioni, espressioni facciali e movimenti del corpo in forma esagerata). E cogliere come questi accadano in modo ripetuto e con modalità pienamente formalizzate. A partire da tali fenomeni, cui colloquialmente è stato assegnato il nome di baby talk, è d’altra parte possibile rintracciare come il comportamento estetico-artistico adulto venga a darsi in modo spontaneo e inintenzionale. È in questo senso, che il baby talk può essere assunto come la “culla” dove prendono forma gli “incunaboli estetici”: vale a dire quei dispositivi di base (ripetizione, stilizzazione, elaborazione, esagerazione, manipolazione dell’aspettativa) che utilizzati dai bambini e da chi se ne prende cura per modulare il reciproco coinvolgimento emozionale, vengono ripresi e “rifunzionalizzati” dagli artisti per coinvolgere e attrarre l’attenzione del pubblico. Partendo dalla teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale e traendo supporto empirico e sperimentale da una molteplicità di discipline differenti (dall’etologia alla neurobiologia, dalla psicologia dello sviluppo alla paleoantropologia), è da ritenere che il baby talk si sia evoluto più di un milione di anni fa, per incrementare sia le chances di sopravvivenza dei piccoli di Homo che il successo riproduttivo delle loro madri. Ed è altresì da ritenere che le arti – rifunzionalizzando gli incunaboli estetici già presenti e operanti nel baby talk – compaiano nei rituali per la prima volta al modo in cui le sperimentiamo e concepiamo ancora oggi: un making special, o artification, intenzionale e deliberato, che “exatta”, co-opta, l’“artificare” spontaneo dei bambini.
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