Atteso e inatteso
Si fa un gran parlare di esperienza. Pensando, erroneamente, che sia qualcosa di ovvio. E invece l’esperienza, quanto meno quel vissuto (anche leiblich, ossia proprio-corporeo) del quale diciamo enfaticamente che “è stata un’esperienza!”, è in linea di principio, stando soprattutto al coté hegeliano-gadameriano, una fastidiosa, talvolta persino dolorosa, negatività. Di più: è, propriamente, sempre la smentita di un’attesa. Niente esperienza, dunque, in presenza di un deficit dell’attesa e, contemporaneamente, senza crisi (almeno parziale) dell’attesa. Solo che nella Modernità questo legame si è spezzato e l’attesa, non più salutarmente inibita dall’esperienza, sempre più delegata alla mediazione specialistica e tramutata in un’empiria che ha a che fare meno con la natura che non con una schematizzazione de-sensibilizzata, pare fatalmente trasformata in «un’unica e immane super-attesa: nell’attesa, cioè, escatologica, e come tale negatrice della contingenza radicale rivelata dall’inatteso, di un mondo imminente che sia del tutto diverso da quello presente e finalmente risanato».