Ansia, paura e panico tra psicologia e neurofisiologia

di Amedeo Ruberto e Antonella Leonelli
«atque», 23-24, 2001, pp. 95-108

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Come già accade per moltissimi termini di natura specialistica, anche per “ansia”, “paura” e “panico” l’uso popolare sviluppa significati per lo più generici e confusivi, con ampie aree di sovrapposizione e immancabili difficoltà di comprensione. Che il problema ci sia e che si estenda ben oltre il senso comune e il quotidiano colloquiare, si capisce anche dalle difficoltà che s’incontrano nella somministrazione (e, ovviamente, ancor più nell’autosomministrazione) di scale di valutazione in cui si chiede “quanto spesso si è stati ansiosi” supponendo, forse troppo ottimisticamente, che chi risponde sappia con chiarezza di cosa si sta parlando. Poiché, d’altra parte, è pur vero che non si può chiedere ai soggetti intervistati di attenersi nelle risposte ai criteri del DSM-N, molte scale di valutazione tentano di aggirare l’ostacolo lessicale con domande che incorporano descrizioni più figurate e suggestive dei fenomeni che si vogliono indagare, del tipo: “Quante volte le capita di sentirsi sul filo di una lama?”. Non essendo però scopo di questo lavoro quello di una polemica con le valutazioni psicometriche, lascio al lettore l’interrogativo circa la maggiore o minore precisione delle locuzioni accennate così come il dubbio se esse si riferiscano maggiormente a fenomeni di ansia, di paura o di panico.

Differentemente, il dubbio che si voleva evocare circa la capacità di questi termini a descrivere con sufficiente precisione ciò che nomi nano, vuole assolvere una funzione puramente introduttiva per alcu ne riflessioni sui possibili rapporti del tutto interni alla nostra vita mentale e in particolare tra le vicissitudini dell’attribuzione di significato linguistico alle nostre esperienze e alcuni aspetti dei relativi “scenari” neurofisiologici.

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