Appunti su ‘verità e efficacia’ nel lavoro psicoterapeutico

di Amedeo Ruberto
«atque», 18-19, 1998, pp. 117-128

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  1. Supponiamo che ci si presenti un individuo sostenendo di essere un cavallo: come potremmo accertarne la verità?

Probabilmente la maggior parte di noi, se non è medico, provvederebbe ad accompagnare il poveretto da uno specialista o lo inviterebbe caldamente a recarvisi al più presto. Se medico, metterebbe in vece mano al ricettario per prescrivere una congrua dose di farmaci. Una più esigua minoranza forse proverebbe a convincerlo dell’impossibilità di quello che sta affermando e qualche buon intenzionato magari cercherebbe di incastrarlo con un sillogismo del tipo:

-Ma tu mangi la biada?

-No! Risponderebbe il malcapitato.

-Vedi allora che non puoi essere un cavallo?

Constatato l’invariabile insuccesso del procedimento, il “bene intenzionato” concluderà molto “razionalmente” che sarà opportuno chiamare uno psichiatra o, se è psichiatra, che converrà essere meno sbrigativi e avere un po’ di pazienza.

Un gruppetto molto più esiguo per numero – tradizionalmente scomodo e piuttosto cavilloso – si interrogherà invece sul senso di queste affermazioni chiedendosi, ad esempio, se e come sia possibile credere che un’idea del genere possa essere vera. Naturalmente, quello stesso gruppetto ritiene che un’interrogazione del genere si proporrebbe -magari nascostamente e con molta minore fatica – anche se la stessa persona (o un’altra, non è differente la questione) avesse dichiarato di essere un avvocato o un idraulico.

 

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