Corporeità e quotidianità nell’esperienza analitica

di Giovanni Jervis
«atque», 8, 1993, pp. 33-42

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È inutile ricordare, e proprio su Atque, come la rivoluzione psicoanalitica ci abbia lasciato un sospetto sistematico sulle pretese di autotrasparenza della mente, il dubbio sull’autolegittimazione del l’io, la sovversione delle forme di buona fede correntemente accreditate dalle convenzioni sociali. Riprendendo un tema che si era già affacciato in Schopenhauer e in Nietzsche, da Freud in poi una interrogazione più pressante viene rivolta all’attore, impegnato nei mille ruoli della vita privata e delle convenzioni mondane: «Sei proprio sicuro di sapere perché fai quello che stai facendo? Che recita è la tua? Fermati un attimo, guardati! Le vere motivazioni dei tuoi atti sono quel le che tu esibisci con tanta tranquillità oppure sono altre, che tu non sai, o non vuoi riconoscere?».

In tempi relativamente recenti, e in pratica a partire dagli anni ’50, si è finalmente fatta strada l’esigenza che fin dall’inizio era ineludibile: quella che impone di applicare lo stesso interrogativo, lo stesso dubbio sistematico, allo psicologo, al terapeuta, allo psicoanalista impegnati nel loro lavoro. Lo sviluppo impetuoso degli studi sul contro transfert negli ultimi trent’anni è il segnale di un salto di qualità nella consapevolezza critica della psicoanalisi: dopo Winnicott, Searle, Rac ker, Langs capiamo meglio come nella relazione analitica siano in causa non solo le dinamiche inconsce del paziente, ma anche quelle dell’analista, e non soltanto i problemi irrisolti del primo ma anche quelli – ineliminabili – del secondo.

 

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