Non mi sembra interessante leggere Platone alla luce di Freud, e nemmeno utile. Non sono soltanto ovvie ragioni storiografiche e filologiche a distogliermene, ma ragioni ancora più strutturali e profonde, ragioni che cerco ora di riassumere.
Rinvenire in Platone numerose “anticipazioni” delle tesi e dei concetti che la psicoanalisi freudiana ci ha reso familiari è cosa agevole e anche, a prima vista, suggestiva e magari impressionante. Così procedendo, tuttavia, si suggerisce l’idea che la psicologia e l’antropologia freudiane contengano un rapporto di sostanziale vicinanza con la “verità ultima” dell’essere umano: una verità che Platone, nei suoi modi mitologici, letterari e metafisici, avrebbe genialmente “presentito” e “anticipato”, pur senza poter arrivare a scorgere il fondo “reale” della questione. Questo modo di ragionare pensa, come cosa ovvia e scontata, che l’uomo antico sia essenzialmente un inventore di favole – talora, certo, straordinarie nelle loro “intuizioni”; mentre solo l’uomo moderno, a partire dalla rivoluzione scientifica europea, avrebbe a che fare con la realtà vera delle cose così come sono, senza miti o leggende, ma in base a soli de teorie sperimentalmente efficienti e comprovate.