Dialogo con Mario Trevi

di Luigi Aversa
«atque», 1 n.s., 2006, pp. 333-340

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Per quel che riguarda la psicologia,

tra i vari concetti di verità enumerati

dai filosofi e dagli storici della filosofia,

quello che sembra più convenire

ai fragili statuti epistemologici di questa scienza

è quello di verità come coerenza.

Mario Trevi

 

 

 

Luigi Aversa Lei ha posto come nucleo centrale del discorso psicologico il problema del simbolo, enucleandone, dal pensiero jun­ghiano, la valenza più moderna, quell’aspetto cioè “necessario” per ché il processo psichico possa procedere e non arrestarsi. Non crede che sarebbe più appropriato parlare di “coscienza simbolica”? In tal modo il simbolo sarebbe lo “sporgere”, il “trascendere”, lo stesso flusso dinamico della coscienza vista nel suo tendere verso ciò che “ancora non è”.

 

Mario Trevi Il vocabolo “simbolo” è estremamente polisemico. Gli possono venir attribuiti vari significati, tutti legittimati dall’uso quotidiano. Merito di Jung è quello di aver tentato di isolare uno di questi significati, forse il più difficile da definire e senz’altro il più oscuro, delegittimando però le altre accezioni. Non possiamo di menticare che ai confini semantici di “simbolo” stanno, per esem pio, le metafore e l’emblema. Né possiamo dimenticare che, nell’impiego corrente, i valori semantici di questi tre termini sconfinano reciprocamente. Sempre per esempio non scomparirà mai dall’uso quotidiano la proposizione “la bandiera è il simbolo della patria”. Jung tuttavia sembra essere nel giusto opponendo “simbolo” a “segno” e attribuendo a quest’ultimo lo statuto logico di qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Aliquid stat pro aliquo. Il simbolo junghiano non è mai un sostituto. Esercita una funzione sintetica che non è propria del segno e, per quel che riguarda la vita psichica individuale, è evocatore o induttore di stati evolutivi non ancora attinti dalla coscienza.

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