Evento, confine, alterità

di Silvano Tagliagambe
«atque», 7, 1993, pp. 11-44

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Il fico sterile e l'”uomo-comunità”.

 

Andava da Betania a Gerusalemme,

oppresso anzi tempo dalla tristezza dei presentimenti.

Sull’erta un cespuglio riarso; fermo Il su una capanna il fumo,

e l’aria infuocata e immobili i giunchi

e assoluta la calma del Mar Morto.

 

E in un’amarezza più forte di quella del mare,

andava con una piccola schiera di nuvole

per la strada polverosa verso un qualche alloggio

(andava) in città a una riunione di discepoli.

 

E così immerso nelle sue riflessioni

che il campo per la melanconia prese a odorare d’assenzio.

Tutto taceva. Soltanto lui là in mezzo.

E la contrada giaceva inerte in un deliquio. Tutto si confondeva: il calore e il deserto,

e le lucertole e le fonti e i torrenti.

 

Un fico si ergeva lì dappresso

senza neppure un frutto, solo rami e foglie.

E lui gli disse: “A cosa servi?

Che gioia m’offre la tua aridità.

 

Io ho sete e fame, e tu sei un fiore infecondo,

e l’incontro con te è più squallido che col granito.

Come è offensiva la tua sterilità!

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