La ricerca dell’ordinario
Afferrare, nell’esperienza e nei comportamenti, la qualità dell’ordinario è tema, insieme, di vaghezza e di complessità rilevanti. Appare ovvio, a prima vista, che ogni definizione di ordinarietà sia da riferirsi a una particolare appartenenza culturale, peraltro còlta in una sua specifica determinazione storica. E che ci si debba, allo stesso tempo, porre più di una domanda sul valore epistemologico di una operazione che eleva a oggetto d’indagine una nozione che coniuga indiscutibilità con ineffabilità, presunta immediatezza con dichiarata evanescenza.
Pure non sono mai venute meno, in psicologia come in psicopatologia, sia l’ambizione di una definizione generale di questo come di termini simili, di pari carattere olistico – anche se plausibilmente dotati di un’articolata composizione – sia l’azzardo di una comprensione il più possibile rigorosa di concetti di sfuggente evidenza. Si è dunque tentato, con qualche successo, di definire, nella loro più ampia generalità, concetti come sano, malato, normale, abnorme, indivi duando pragmaticamente requisiti riferibili a ciascuna di queste qualità, da sottoporre successivamente a un processo di distillazione che tendesse a una tipizzazione, a un’essenzialità condivisibile.