Nel suo celebre saggio del 1932 dedicato all’Ulisse di James Joyce, Carl Gustav Jung solleva alcune questioni che possono essere utilizzate per impostare il problema del rapporto difficile tra ap parenza sensibile e linguaggio. A interessare qui non è il giudizio che Jung esprime sul capolavoro di Joyce, ma solo quei passaggi nei quali egli esamina l’Ulisse fornendo spunti che contribuiscono a mettere a fuoco in quale senso l’apparenza metta in scacco almeno parziale la funzione proposizionale e predicativa del linguaggio.
Jung attribuisce all’Ulisse un’uniformità monocorde di registro, essendo un’opera che a suo parere è volta a ribadire esclusivamente e all’infinito, sottraendosi a ogni partnership dialogica con il lettore, il «sistema sempre uguale del pensiero viscerale» e dunque «l’attività mentale limitata alla mera percezione sensoriale» (U, 387). Il romanzo di Joyce viene quindi letto come costruzione linguistica che gravita esclusivamente attorno al registro percettivo. In tal modo esso sperimenta quel collasso della linguisticità che lo caratterizza in maniera peculiare. Infatti, il linguaggio, così sacrificato, smarrisce completamente ogni funzione comunicativa effettiva ed efficace. Si limita a inseguire il gioco caleidoscopico della percezione, la quale per con verso tende a crescere ipertroficamente all’interno della stessa tessitura discorsiva della prosa joyciana. Così, mentre diviene manifesta una «completa assenza di giudizi» e un’«atrofia dei valori», si verifica all’opposto «un aumento dell’attività sensoriale».