Il senso dell’alterità onirica

di Maria Ilena Marozza
«atque», 7, 1993, pp. 107-122

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  1. L’alterità limite della   coscienza 

Il testo junghiano ci confronta spesso con una onirica come concezione del sogno che può, a tutta prima, lasciare perplessi: una concezione che -di contro al tentativo freudiano di aprire il sogno all’esplorazione e alla comprensione cosciente tramite la ricerca dei significati che preesistono alla sua formazione – mette in risalto piuttosto l’aspetto di incomprensibilità, di irriducibilità, di lontananza e di estraneità assoluta per la coscienza interpretante del fenomeno onirico. In tal senso il sogno viene visto come un evento naturale, un fatto biologico, una realtà oggettiva di cui la coscienza non può che prendere atto nella sua autoevidenza, rinunciando ad ogni presupposizione di si gnificato nei suoi riguardi, poiché esso, come ogni fatto di natura, è di per sé assolutamente estraneo alla dimensione significativa attraverso la quale la coscienza costruisce il proprio orientamento. In questo atteggiamento di Jung è ravvisabile un vero e proprio rivolgimento di prospettiva rispetto alla scoperta freudiana della significazione onirica. Per Freud, infatti, il sogno è il prodotto del lavoro onirico, quindi una rappresentazione costruita per significare, per esprimere attraverso la deformazione e l’allusività simbolica un contenuto che gli preesiste: quindi un sogno possiede sempre dietro di sé un significato, più o meno complesso e cifrato, che deve essere decifrato dal lavoro interpretativo.

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