Inchiesta ingenua sulla natura della psicoterapia

di Mario Trevi
«atque», 6, 1992, pp. 15-30

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1.   L’interesse della filosofia per la psicoterapia

Un interesse forse sospetto, forse illegittimo serpeggia oggi nella letteratura filosofica. Paludato nell’ambigua assertività del linguaggio teoretico, più o meno declinato in sottolinguaggi specifici (linguistica, sociologia, etica, ermeneutica, epistemologia, persino teoria generale dei sistemi), quasi sempre schermato da un distanziamento lievemente ironico, è l’interesse per quella pratica d’origine medica e sempre più diffusa ai nostri giorni che vien detta genericamente psicoterapia. Non si tratta certamente di un fenomeno in qualche modo accostabile a quello che prese campo all’inizio del XVII secolo, vale a dire il rapidissimo convergere dell’interesse filosofico sulle scienze della natura o su quelle cosiddette esatte e sulle loro metodologie specifiche: troppo maestosa e universale fu quella rivoluzione filosofica per essere paragonata a quanto avviene oggi quasi in forma di divertito e distratto bricolage. Troppa è la differenza di livello tra i due fenomeni storici.

Eppure la filosofia, fin dalla riflessione del medico Tuke sulla cura dell’anima mediante l’anima (e Tuke fu forse colui che coniò il termine o almeno ne stabilì suoi precisi confini semantici), è costretta ad interessarsi di una pratica che, quasi esclusivamente attraverso il medium del linguaggio, permette (o almeno promette) trasforma zioni sostanziali del pensiero e del comportamento del soggetto umano, quelle stesse trasformazioni che la tradizione classica affidava al l’insegnamento morale come parte della filosofia pratica.

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