La clinica tra modello e metafora

di Maria Ilena Marozza
«atque», 1 n.s., 2006, pp. 139-164

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  1. In questo contributo vorrei sintetizzare alcune linee di ricerca scaturite dal confronto con il pensiero e la personalità di Mario Trevi. Queste linee convergono, nella mia esperienza, su un vertice, costituito da una riflessione sulla necessità di formulare una teoria della clinica difrontiera, nella zona di confine tra pensiero psicoana litico e pensiero fenomenòlogico. Per me, di formazione medica, l’incontro con Trevi ha rappresentato un continuo stimolo a mettere alla prova e a rielaborare il principio stesso a fondamento dell’analisi junghiana, continuamente modulata dalla consapevolezza del ricercatore di essere contemporaneamente soggetto e oggetto della propria ricerca conoscitiva. In Trevi questa consapevolezza ha preso forma nelle due grandi immagini del discorso della e sulla psiche. Il suo stimolo è sempre stato volto a riflettere sull’inevitabilità del mettere in gioco la soggettività come strumento di conoscenza, ma nello stesso tempo a riconoscere, rispettare e ascoltare con la massima cura l’alterità che fonda la relazione analitica. Trevi è sempre stato lontanissimo da tentazioni soggettivistiche: la sua profonda formazione fenomenologica gli ha consentito di affrontare la crisi dei fondamenti naturalistici del pensiero psicoanalitico, freudiano e junghiano, in modo del tutto diverso dalle attuali tendenze che riscoprono il concetto di soggettività e l’esigenza di lavorare con e su di essa appiattendola e banalizzandola in una sorta di soggettivismo eclettico. Davvero potrei dire che l’invito di Trevi al rigore rispettoso dei modi della conoscenza soggettiva dell’altro poteva essere espresso dalla massima gadameriana: «non ode, o ode in modo sbagliato, solo colui che ascolta costantemente se stesso».

 

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