Tema di queste riflessioni è l’avventura che la parola può esperire nelle sue diverse declinazioni di senso: per un verso, la parola stentorea, che si dà sicura, densa di verità incontrovertibili, come ci viene dal Cratilo di Platone o dal Diavolo di Dürer; di contro, la parola puramente convenzionale, prossima ad annichilirsi nella vacuità gorgiana: la parola, così ci appare, dell’Ermogene platonico o della Morte raffigurata da Dürer. Dal confronto delle due, infine l’apertura a una terza possibilità: è la parola che viaggia nella cosa che esprime, la parola esperienza, mai ferma, gravida di un senso infinito; incurabile, nell’accezione ricavabile dalla riflessione dantesca (forse, proprio per questo, paradossalmente, strumento capace di cura) ovvero indisponibile a ridursi tra le maglie strette della grammatica. Ove grammatica è icona di pensiero fermo, di teoria stantia, timorosa della vita, come può certo anche divenire la teoria che l’analista maneggia.
Parole chiave: parola, esperienza, différance, incurabilis, estetica della cura
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