La cura della singolarità

di Graziella Berto
«atque», 10 n.s., 2012, pp. 63-72

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La consumazione dell’inconscio

 

C’è un messaggio, o un allarme, che ci giunge da alcune voci del la psicoanalisi contemporanea: l’“inconscio”, quella dimensione eccentrica al controllo della coscienza e densa di desideri che ci siamo abituati a chiamare in questo modo, si sta inaridendo, rischia di scomparire. L’effetto di tale “prosciugamento” non è però un benes sere diffuso, una guarigione e quindi una salute generalizzata ma, al contrario, un nuovo e accresciuto «disagio della civiltà».

Si tratta, certo, di un disagio strano, dovuto paradossalmente alla facilità con cui oggi sembra possibile riempire i vuoti, procurarci ciò che ci manca, appropriarci dell’oggetto di cui abbiamo bisogno per sentirci soddisfatti: tutto, o quasi, è a disposizione, può essere il più delle volte acquistato e consumato. Viene meno l’esperienza dello scarto tra lo stimolo e la risposta, come se ogni tensione potesse subito essere placata. La risposta non dipende infatti dall’altro, che, nella sua imprevedibilità, può anche sottrarsi a essa, ma da un oggetto che in genere è a nostra disposizione.

Non c’è più spazio per il desiderio, per l’apertura di una mancanza che inquieta il soggetto, gli impedisce di sentirsi pacificato, soddisfatto. Una delle caratteristiche di tale mancanza sta nell’impossibilità di dare un nome a ciò che manca, e di determinare così l’elemento che potrebbe colmarla.

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