La fuga in sé. Variazioni sul tema della coscienza

di Fabrizio Desideri
«atque», 9, 1994, pp. 47-68

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“Autocoscienza”: se c’è una parola-chiave, un concetto fondamentale, che nella storia della filosofia moderna ha giocato “il ruolo principale”, è proprio questa. Così notava Dieter Henrich in apertura ad un importante saggio del 1970 dedicato a questo tema . A tale osservazione c’è solo da aggiungere che nessun altro termine del lessico filosofico è stato oggi problematizzato con maggiore radicalità. E quando si dice problematizzato, non si intende affatto quella ‘spensierata’ rimozione della consistenza del problema che si può trovare nelle varie forme del carnevale Post-moderno dove, immancabilmente, si festeggia la morte del Re-Soggetto. Semmai una messa in questione di quei presupposti che si ritenevano saldi fondamenti. Una messa in questione che ha in generale a che fare, ovviamente, con il Linguistic Turn e con il nome di Wittgenstein e che ha trovato, in anni recenti, una del le sue formulazioni più rigorose nell’ importante volume di Ernst Tugendhat, SelbstbewujJtsein und Selbstbestimmung. Il senso dell’ attacco di Tugendhat al concetto tradizionale di “autocoscienza” – un attacco che coinvolge in particolare la revisione critica proposta da Henrich e dalla scuola di Heidelberg – sta essenzialmente nel negare il carattere del tutto interno, pre-linguistico, della certezza contenuta in essa. Se c’ è qualcosa come una coscienza di sé -sostiene Tugendhat ­ questa non va cercata ‘puramente’, né in una auto-endoscopia dell’Io, ma solo nella forma ‘esterna’ di un sapere proposizionale. L’autocoscienza in senso proprio è solo in quanto “articolata linguisticamente”. Se si dà, si dà solo nel linguaggio.

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