La ricerca della verità come etica della cura

di Maria Ilena Marozza
«atque», 18-19, 1998, pp. 89-104

Scarica intero Articolo

Infine non bisogna dimenticare che la relazione analitica

è fondata sull’amore della verità,

ovverosia sul riconoscimento della realtà,

e che tale relazione non tollera né finzioni né inganni.

(S. Freud, 1937)

 

È ancora possibile oggi, per un analista, sottoscrivere con piena convinzione la frase di Freud, accettandone tutte le implicazioni? Probabilmente no, o almeno non senza porre, anche radicalmente, in questione molti dei termini che in essa compaiono. Se l’ossatura generale della frase freudiana può essere mantenuta, a rappresentare lo spirito che individua la qualità del lavoro analitico, gli interrogativi che s’accompagnano ai singoli termini sono invece rappresentativi di profonde trasformazioni che rendono più complessa la concezione attuale della cura e più incerta l’identità dell’analista. Forse una buona parte del travaglio del movimento psicoanalitico è legata alla difficoltà di continuare a nutrire una solida fiducia nei presupposti impliciti in queste poche righe. L’enunciato freudiano è infatti fortemente rappresentativo di una concezione della cura che lega inscindibilmente l’efficacia terapeutica al raggiungimento di un nucleo veritativo. In quest’ottica, tale nucleo è senz’altro inteso come preesistente all’indagine analitica e coincidente con la “realtà”, ma non certo co me una verità dogmaticamente già data e conosciuta dall’analista, né tanto meno come una verità problematica solo perché richiede opportune forme e tempi di “rivelazione” per esercitare al meglio le proprie potenzialità terapeutiche (è questa un’interpretazione che potremmo definire “morta” del pensiero freudiano, una sorta di de cadenza scolastica della prassi analitica).

Pubblicato in Articoli
Ricerca Fascicoli e Articoli
Tipo
Anno
Fascicolo