La terapia attraverso il linguaggio: dall’approccio analitico a quello simbolico

di Paolo Francesco Pieri
«atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 21-58

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  1. Lo psicoterapeuta che intenda definire la propria pratica con l’espressione “psicologia analitica” sta adottando la denominazione che Carl Gustav Jung assegnò nel 1911 parlando di una psicologia delle relazioni tra la coscienza e l’inconscio, e di una psicologia che nel suo darsi è capace di riflettere su se stessa e quindi di ripensare i metodi e le verità che in quella stessa pratica vanno emergendo.

Nell’esercizio della sua pratica egli ha certamente acquisito una serie di sensibilità: egli considera che ogni suo processo conoscitivo dell’altro mostra il legame circolare con la conoscenza di se stesso, che ogni conoscenza di sé e dell’altro è positivamente critica non soltanto di sé come parlante ma anche della cultura che gli permette di pronunciare le parole nel senso in cui le dice, e che ogni evento veritativo è non solo in relazione con sé e la sua cultura, ma è impegnativo per lui, che quelle verità esprime.

Un tale psicoterapeuta assume i fatti e gli eventi come cose che si procurano un senso oggettivo attraverso il modello dominante che nell’osservarle e viverle è stato impiegato. Per ciò assume le cose che egli stesso vede, nel loro essere strettamente legate ai modi che la sua tradizione ha man mano incorporato per rappresentarle: vale a dire, considera che anche ciò che dice non riguarda il come stanno vera mente le cose che vede, ma riguarda la verità delle cose secondo la prospettiva che si è andata costruendo, una volta installatasi dentro di sé e la propria cultura. È per ciò che il nostro psicoterapeuta non può fare a meno di oggettivare il metodo che di volta in volta impie ga.

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