In una foto scattata da Richard Drew l’11 settembre del 2001 si vede un uomo che cade seguendo una linea perpendicolare da una delle Torri Gemelle: nessuno sa come si chiami – o almeno non ri sulta che delle ricerche siano state fatte al proposito, forse perché la sua identità non interessava realmente nessuno: la sua postura, la sua grave traiettoria fisica nel precipitare, l’irrealtà del suo volo a rovescio, l’astrazione dell’immagine hanno fatto correre fiumi di in chiostro, il suo nome, la sua vita, il suo racconto sono rimasti appan naggio di un’intimità che si è guardata bene dal manifestarsi – in pochi conoscono il suo nome e tutti lo hanno definito servendosi del titolo della fotografia: a falling man, un uomo che cade, per qualcun altro, più versato nel simbolico, l’uomo che cade. L’uomo che cade non fa che cadere, sospeso tra un prima che gli sta alle spalle e un dopo che nell’immagine non ha mai corso, è oggetto di un’eterna sospensione: va verso la morte, lo schianto – assieme a tutti quei corpi abbandonati a una libera caduta nello spazio che l’11 settembre il fotografo Sebastião Salgado aveva inizialmente scambiato per pezzi di carta – ma questo esito resta fuori di scena. Tutto lascia pensare che il contatto – il pieno contatto con il suolo – esca dal campo della rappresentazione: che esso costituisca una zona cieca, tanto impossibile quanto interdetta all’inquadratura, un definitivo ritrarsi dello sguardo sul confine della morte, che altro non è se non l’insuperabile confine del reale dato a ogni rappresentazione. Ciò di cui tutte le rappresentazioni parlano, ciò di cui l’intero campo della
L’impronta. Trattenere i corpi, toccare l’immagine
di Attilio Scarpellini«atque», 11 n.s., 2012, pp. 113-126Scarica intero Articolo
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