L’lo e il Sé

di Giorgio Sassanelli
«atque», 9, 1994, pp. 87-100

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In maniera un po’ scherzosa e paradossale, entrerò nel vivo della questione muovendo dalla sensazione piuttosto diffusa che l’estendersi e l’affermarsi dell’uso del termine “Sé” abbia finito per costituire una sorta di discriminante fra due figure di psicoanalista: l’una più ‘buona’ ed empatica che, per l’appunto, presta attenzione soprattutto al Sé del paziente; l’altra meno empatica e disponibile, per non dire ‘cattiva’, che si rivolge prevalentemente al suo Io. Ma da dove nasce quest’impressione sia pure soggettiva? Ritengo che essa derivi dalla prevalente connotazione che i due termini hanno assunto nel loro uso abituale; ve diamone qualche esempio.

È così che Wolf (l988, p.64), dopo aver affermato che il sé sano per mantenere la sua coesione, il suo vigore e il suo equilibrio, deve essere inserito in un ambiente che gli garantisca un costante rifornimento di esperienze che lo rafforzino, indica queste esperienze come bisogni del sé: dal bisogno di rispecchiamento a quelli di idealizzazione e di fusione; dal bisogno alteregoico a quelli di antagonismo e di efficacia; bisogni soddisfatti dai cosiddetti oggetti-sé.

In verità Wolf non fa che precisare e approfondire la posizione di Kohut per il quale (1984, p.75) il Sé sanò ha sempre bisogno, dal primo all’ultimo respiro, delle risposte di sostegno degli oggetti-Sé.

Questa esigenza è ugualmente sostenuta da Modell quando scrive (1984, p.25) che la letteratura psicoanalitica concorda ampiamente nel riconoscere che il bisogno di riaffermare il Sé tramite le risposte degli altri continua per tutta la vita; e lo stesso Modell si riferisce (p.203) al la concezione del Sé in Winnicott come a un qualcosa che viene fornito dall’oggetto e la cui esistenza dipende dalla funzione di cura dell’altro.

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