L’umorismo e la rivincita dell’uomo debole

di Vladimir Jankélévitch
«atque», 2 n.s., 2007, pp. 39-40

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L’umorismo è come Dio: se ne può dire solo quello che non è. È sempre qualcos’altro. Lo si definisce negativamente, dall’esterno oppure con sentimenti affini, in riferimento a ciò che gli assomiglia, pur differendone.

Nell’umorismo non c’è un segreto da comprendere o da indovinare, come nella battuta o nel gioco di parole. È l’intero pensiero a esser rivestito di umorismo. Per esempio, in un umorista che fa il fal so ingenuo o dice amenità in tono tranquillo, non ci sono giochi di parole da cogliere, così come non c’è niente di determinabile, di pal pabile o di localizzabile. Il gioco di parole lo si può comprendere an che un quarto d’ora dopo. L’umorista in quanto tale, invece, non fa giochi di parole – se non per falsa grossolanità. Anzi, in un umorista sottile, la volgarità può essere persino una ricercatezza dell’ingegno: un’ingegnosità al quadrato. L’umorista umorizza in tal caso sullo spirito ‘da commesso viaggiatore’. E allora si ride non già per la battuta grossolana, bensì per il fatto stesso che l’umorista faccia dell’umorismo su di essa. L’umorismo comporta sempre un polo che espone e la coscienza dell’altro. In tal senso è metacoscienza.

L’umorismo è molto più impalpabile dell’ironia. Questa è di facile lettura, perché generalmente basta solo prenderla al contrario. Per di più è dogmatica, dottrinale, pedagogica, riparatrice di torti insomma conosce la verità.

 

 

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