Oltre i vincoli del dualismo e del monismo materialista: la teoria neurofenomenologica dei due mondi

di Enrico Facco
«atque», 30-31 n.s., 2023, pp. 181-203

La definizione di coscienza è un problema transdisciplinare difficile (se possibile). Le teorie della coscienza infatti si estendono dalle neuroscienze alla filosofia, alle scienze sociali e all’antropologia, fino alla fisica quantistica. Nei decenni scorsi la definizione di coscienza è stata dibattuta prevalentemente tra rigide posizioni di matrice monista materialista e dualista, mentre nelle neuroscienze è stata essenzialmente affrontata con l’approccio dominante meccanicista-riduzionista. Fortunatamente l’acceso dibattito degli scorsi decenni si sta attenuando e recentemente sono state introdotte visioni moniste più ampie che includono il mondo “immateriale” della coscienza. In questo processo è opportuno riconsiderare il posto e il ruolo della coscienza nel mondo, data la sua inscindibile interrelazione con la realtà. Nel 1977 Popper e Eccles hanno introdotto la Teoria dei Tre Mondi, nel tentativo di superare i limiti del materialismo e del determinismo nella comprensione della relazione mente-cervello-realtà. Le profonde implicazioni epistemologiche di questa teoria hanno sollevato forti critiche, oltre ad apprezzamenti. A distanza di mezzo secolo dalla sua introduzione è opportuno dunque proporre una nuova teoria neurofenomenologica dei tre mondi, che tenga in considerazione le precedenti critiche e le nuove acquisizioni delle neuroscienze, nella speranza possa fornire un contributo al processo di comprensione della coscienza e dell’inseparabile interrelazione mente-cervello-mondo.

 
Parole chiavecoscienza, dualismo, materialismo, mente, relazione mente-corpo, fenomeni fisici

 
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28-29 n.s./2021
AL GREMBO DELLE PAROLE

a cura di

Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

 
Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica, con specifici riferimenti alla talking cure. In forma di dizionario – Paolo Francesco Pieri / Prefazione – Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri // Parte prima – Quale parola per la cura / Cura e parola: un intreccio necessario – Enrico Ferrari / I tre paradossi della traduzione psicoanalitica – Giuseppe Martini / Parole che immaginano – Roberto Manciocchi / “A me piace sentire le cose cantare”. Variazioni sul tema dell’esperienza tra psicopatologia e filosofia – Angiola Iapoce / Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cureMaria Ilena Marozza // Parte seconda – Estetica della cura / Musica, parola, gesto: lo “sguardo attraverso” – Silvano Tagliagambe / L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi – Giuseppe Civitarese / Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse – Elena Gigante / La cura della parola incurabilisFrancesco Di Nuovo / Glossario di un lettore – Antonino Trizzino // INDICE PER AUTORE DEGLI ARTICOLI DI “ATQUE” 1990-2021

 

 

 

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In questo fascicolo di “Atque” torniamo a riflettere su quella pratica di cura che definiamo talking cure, a partire dalla brillante definizione di Anna O., alla luce di alcuni argomenti ampiamente dibattuti nei fascicoli pubblicati in questi ultimi anni.

Per certi versi, la talking cure dei nostri giorni tende sempre più a riconoscersi in una dimensione performativa, valorizzando le azioni, le trasformazioni, i passaggi che si compiono nella pratica linguistica, avendo ormai quasi del tutto abbandonato sfondi più concretistici o rimandi ad altri livelli di realtà che diano senso all’attuale. E tutto ciò conduce di necessità a ricercare una migliore capacità descrittiva dell’esperienza e della sua attualità, ma anche, approfondendo in senso critico il concetto stesso di esperienza, a giungere al grembo delle parole.

Per questo intendiamo parlare di estetica della talking cure accogliendo la proposta di Emilio Garroni e di Fabrizio Desideri di guardare all’estetica non più come una disciplina speciale, ma come una riflessione critica sulle condizioni di senso dell’esperienza, volta a esplorarne la grande complessità. Lo “sguardo-attraverso”, mutuato da Wittgenstein nel tentativo di descrivere quel modo paradossale di vivere dentro l’esperienza mettendola contemporaneamente in questione dall’interno, esprime molto bene il processo di pensiero che accompagna costantemente la pratica della talking cure, almeno quando essa si ponga criticamente in discussione relativamente ai modi del suo farsi.

 

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Cura e parola: un intreccio necessario

di Enrico Ferrari
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 41-55

La storia ufficiale della talking cure prende avvio quando Anna O. sperimenta che la parola può far superare il mutismo della perdita. Del resto, un po’ temerariamente, possiamo anche affermare che, se l’uomo non sperimentasse la perdita e la caduta, non avrebbe bisogno né desiderio di parlare. Per questo motivo, parola e cura condividono la medesima origine e il medesimo destino, che è quello di provvedere a sé stessi e all’altro favorendo la comunanza e, allo stesso tempo, il collegamento tra i diversi livelli esperienziali: quello sensoriale, emotivo e ideico.
Curativa non può essere la parola delirante perché assolutizza l’idea negando la sensorialità del corpo e, nemmeno, la parola ipocondriaca perché rimane prigioniera dei sensi e non accede alle idee. La parola cura quando diventa parola erotica, che sa abitare la perdita tessendo legami. E la parola cura quando diventa parola estetica, che sente e fa sentire permettendo la globalità della conoscenza e dell’esistenza.
 
Parole chiavetalking cure, perdita, spaesamento, sorge, parola erotica, parola estetica
 
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I tre paradossi della traduzione psicoanalitica

di Giuseppe Martini
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 57-78

Il linguaggio è sicuramente lo strumento principale attraverso cui si svolge l’esperienza psicoanalitica, ma non è terapeutico di per sé. I fattori terapeutici vanno ricercati piuttosto nella trasformazione emozionale che esso consente. Per questo la psicoanalisi, più che una talking cure, è una terapia attraversata dal linguaggio. Questo porta l’autore a discutere quali cambiamenti possa apportare alla relazione analitica il riferirsi preferenzialmente alla interpretazione, oppure alla narrazione oppure alla traduzione. Vengono così indagate le maggiori potenzialità di un lavoro analitico inteso come lavoro traduttivo e vengono esaminati i tre paradossi con cui tale paradigma ci confronta: 1) lo sforzo di comprendere il paziente si accompagna al riconoscimento dell’inevitabile tradimento a cui questo ci espone; 2) se la traduzione è volta a limitare l’incomprensibile, proprio l’incomprensibile garantisce la fedeltà e il rispetto dell’alterità; 3) la traduzione implica una trasformazione dell’irrappresentabile in rappresentazione, ma tuttavia esito altrettanto importante dell’analisi è la trasformazione inversa dalla rappresentazione all’irrappresentabile.

 

Parole chiave: linguaggio, traduzione, intraducibile, rappresentazione, irrappresentabile

 

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Parole che immaginano

di Roberto Manciocchi
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 79-100

L’articolo centra la propria attenzione sulle attuali proposte in merito all’impresa psicoterapeutica che, uscite da una visione “disvelante”, descrivono la loro pratica come un mettere in forma, un mentalizzare, un dar voce agli aspetti affettivi e sensoriali della relazione presente fra paziente e terapeuta. Tenendo in considerazione questo punto, vengono prese come spunto di riflessione alcune idee proposte da C.G. Jung, L. Wittgenstein e W.R. Bion che sembrano avere delle visioni simili relative al rapporto fra l’immagine, la sensazione, la percezione e la parola, e tentano di risalire ai momenti aurorali della nascita del pensiero e del linguaggio nella cultura occidentale.

 

Parole chiave: immagine, sensazione, percezione, parola, linguaggio, C.G. Jung, L. Wittgenstein, W.R. Bion

 

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“A me piace sentire le cose cantare”. Variazioni sul tema dell’esperienza tra psicopatologia e filosofia

di Angiola Iapoce
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 101-113

Si vuole mettere a tema il ruolo che svolge il linguaggio nella relazione che la fenomenologia ha consegnato tra manifesto e latente, tra essenza e accidente. Il focus è posto sull’esperienza in quanto momento fondante l’essere umano e dimensione fondativa e non aggirabile. La domanda centrale è quella di Bin Kimura: “Che cosa è primario, l’esperienza o il linguaggio?”. Il lavoro si articola attraverso le riflessioni di Wittgenstein sull’Io in quanto limite del linguaggio con la relativa impossibilità di accesso agli stati interni nella loro purezza sensoriale e la posizione di Bin Kimura che pone la dinamica del soggetto e la sua propria identità, sia normale che patologica, nella dimensione intermedia dell’“aìda” tra immediatezza della certezza sensibile e mediazione del linguaggio. Si tratta di un luogo che suggerisce una posizione dello psicoterapeuta tanto rispettosa degli Erlebnisse dei pazienti quanto propositiva in senso trasformativo.

 

Parole chiave: esperienza, linguaggio, fenomeno, essenza, sostantivo/predicato, traccia, identità, vuoto, oggettività/soggettività, aìda

 

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Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cure

di Maria Ilena Marozza
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 115-134

Nelle diverse teorie del linguaggio che hanno sostenuto la pratica della talking cure è rimasto sempre problematico un punto che riguarda il modo di intendere ciò che non è dicibile: quegli aspetti che stentano a entrare in una dinamica virtuosa del gioco interattivo tra immagine, sensibilità, affetti e parola, segnando così un confine insuperabile per una pratica che si qualifica attraverso le potenzialità dell’atto del parlare. Come si presenta l’inesprimibile? Quali limitazioni pone? Coincide con l’indicibile? E se no, in che rapporti è con esso? Ha a che vedere con l’irrappresentabile? È una categoria assoluta o tollera sfumature ed evoluzioni? Queste domande incidono profondamente sull’atteggiamento clinico che assumiamo di fronte ai limiti della capacità di parlare, nostra e dei nostri pazienti, e la risposta che diamo è molto influente rispetto alla nostra capacità di attendere, di accettare il silenzio, di mantenere una fiducia nelle possibilità evolutive di una cura che, attraverso la parola, s’afferra alle esperienze profonde, del passato e del presente vissuto.

 

Parole chiave: talking cure, inesprimibile, indicibile, irrappresentabile, estetica

 

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Musica, parola, gesto: lo “sguardo attraverso”

di Silvano Tagliagambe
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 137-178

La “talking cure” è un metodo di trattamento che opera attraverso uno “scambio di parole”. Molti ricercatori insistono sull’importanza fondamentale dell’uso del linguaggio nei processi terapeutici e sottolineano che “l’idea stessa” della psicoterapia si basa sul presupposto che sia possibile per una persona risolvere un problema parlando con un’altra. Ma questa nozione è problematica perché è stato dimostrato che i processi terapeutici sono decisamente modellati da aspetti non verbali dell’interazione, per esempio l’espressione facciale, la sincronizzazione del movimento del corpo, le pause del discorso e il silenzio. In questo contesto, due nozioni sono di fondamentale importanza. La prima nozione è la ricerca di John Cage sul silenzio. Inizialmente, Cage concepisce il silenzio in modo tradizionale, come assenza di suono, o come minima attività sonora. Già in questa fase, tuttavia, il silenzio non è solo una negatività per Cage. L’attenzione al silenzio aiuta a scoprire la struttura musicale poiché questa può essere determinata solo dalla durata. Assegnando alla durata il primato dei parametri musicali, Cage apre la musica non solo al silenzio, ma a tutti i suoni di qualsiasi qualità o altezza. La musica diventa un concetto vuoto (silente) da cui può emergere qualsiasi tipo di suono. Il silenzio acquista un ruolo importante: solo attraverso il silenzio il materiale musicale può adottare molti tipi di suoni. La “Lezione sul nulla” di Cage, una lettura del 1950, segnala un cambiamento nel suo pensiero sul silenzio. Egli si rende conto che il ruolo importante del silenzio riguardo alla struttura musicale non stabilisce ancora un pieno riconoscimento delle sue qualità positive. Cage vuole evitare di avvicinarsi al silenzio da un punto di vista negativo, cioè come assenza di suono. All’inizio della ‘Lezione sul nulla’, tenta di arrivare a un diverso rapporto con il silenzio. «Ciò di cui abbiamo bisogno è il silenzio; ma ciò che il silenzio richiede è che io continui a parlare… Ma ora ci sono i silenzi e le parole aiutano a realizzare i silenzi… Non dobbiamo temere i silenzi, possiamo amarli». Il silenzio non è più assenza di suoni; il silenzio stesso consiste di suoni. Il silenzio genera suoni. Chiasma. Reversibilità. Attraverso l’intreccio di silenzio e suono, la loro reciproca penetrabilità viene ora apprezzata. Ciascuno conserva una parte del suo antipode; ciascuno richiede l’altro come sua cornice. La necessaria interdipendenza tra suono e silenzio riguarda due aspetti principali: il silenzio non è solo la precondizione del suono – questo significa che il silenzio contiene il suono – ogni suono a sua volta ospita anche il silenzio. La seconda nozione di fondamentale importanza è il concetto di “Doppio legame”, tratto dal pensiero ecologico di Bateson. L’autore lo ha originariamente sviluppato con alcuni colleghi, più di sessanta anni fa, nell’ambito di una teoria della schizofrenia incentrata più sulle relazioni familiari patologiche e sulla comunicazione che non sui fattori biologici. Un doppio legame è un tipo di comunicazione che si confuta da sé, come quando si dicono contemporaneamente due cose tra loro incompatibili. Una persona che cerca di rispondere a un doppio legame non sarà mai in grado di farlo correttamente, poiché, qualsiasi cosa faccia, essa potrà essere giudicata sbagliata.

 

Parole chiavetalking cure, silenzio, suono, aleatorietà vs. improvvisazione, doppio vincolo

 

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L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi

di Giuseppe Civitarese
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 179-207

L’estetica del sublime e il concetto psicoanalitico di sublimazione, opportunamente riletto, possono interagire in modo da illuminarsi reciprocamente. Ciò che otteniamo è, da un lato, una comprensione più penetrante dell’essenza dell’esperienza estetica nell’arte, dall’altro, una visione più convincente di come si svolge il processo del diventare soggetti. Infatti il primo barlume di autocoscienza si accende in una dimensione prettamente estetica, nel senso etimologico del termine, cioè in uno spazio fatto di sensazioni. Tale spazio, denominato “chora semiotica” da Julia Kristeva, è al tempo stesso dinamico e intersoggettivo – in altri termini, benché intessuto di sensorialità, non può comunque prescindere da una cornice simbolica. Per illustrare questa area tematica, l’autore esamina due esempi di sublime contemporaneo, il film di Kim Ki-duk intitolato Pietà, e alcune opere monumentali di Richard Serra.

 

Parole chiave: sublime, arte contemporanea, Kim Ki-duk, Richard Serra, conflitto estetico, Wilfred R. Bion, sublimazione, simbolizzazione

 

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Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse

di Elena Gigante
«atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 209-239

Questo lavoro propone una rilettura dell’esperienza analitica in chiave estetica, come “sguardo-attraverso”. La prospettiva filosofica di Emilio Garroni funge da cornice teorica. Si approda a una sorta di realismo trascendentale in cui, pur restando ancorati al mondo sensibile e condiviso, si determina una trascendenza estetica: un vero e proprio attraversamento del senso mediante i sensi. Emerge una disposizione sinestetica che, tornando sulla terra, trasforma la metafisica in dia-fisica e la talking cure in arte.

 

Parole chiave: sguardo-attraverso, diafisica, realismo trascendentale, senso, sinestesia, simbolo

 

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