In una delle più famose storie zen tratte da un sutra di Buddha, si parla di un uomo che, rincorso da una tigre, si getta in un precipizio afferrandosi alla radice di una vite per reggersi. La tigre lo fiuta dall’alto, ma non lo può prendere. Nel frattempo giunge una seconda tigre che lo fiuta dal basso, aspettando di divorarlo. In quel momento l’uomo si accorge che due topi stanno rosicchiando la radice che lo regge, ma vede anche vicino a lui una bellissima fragola. Il brevissimo racconto si conclude così: “Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!”.
Si possono trovare molte morali in questa breve favola, molti significati stratificati fra loro, ma il messaggio che trasmette è una sorta di ossimoro esistenziale fra la disperazione e la felicità: l’infelice felicità del sapore non risolve la tragedia, ma la sposta su un piano che non ci si sarebbe aspettati. “Cogli l’attimo!” avrebbe chiosato Orazio, dove il verbo italiano in questo caso gioca sul suo duplice registro semantico.
Ordinariamente parlando, ci si trova in una situazione senza sbocchi: la straordinarietà della vicenda diventa subito ordinaria e prevedibile. La tragicità costruita dalla narrazione – la straordinaria presenza di due tigri a impedire ogni possibile fuga, insieme alla presenza inaspettata dei roditori che accelerano l’esito fatale della vicenda – ci permette di avere la certezza di ciò che accadrà.