Introduzione
«La contrapposizione di segno e simbolo […] potrebbe essere applicata opportunamente alla dualità di destino e progetto». Così scrive Mario Trevi nel suo scritto su Il lavoro psicoterapeutico del 1993.
E ancora: «Il mio corpo, le disposizioni psichiche che forse eredito, la società che mi ospita e la cultura che tutto questo avvolge rappresentano il mio destino […]. Ma l’individuo in tanto è “mobile” in quanto, lungi dall’adeguarsi al “già dato” e pertanto al “destino”, continuamente “si muove” lungo la via di progetti imperiosamente emergenti da quel “già dato”».
Mario Trevi ci aveva già abituato, con il suo Instrumentum symboli del 1986, a una rigorosa ed efficace suddivisione del termine simbolo -per ovviare alla sua straordinaria e spesso confondente polisemia -, in almeno tre ‘classi: A, B e C. Solamente alla terza classe (la C, appunto) era riservato lo statuto più corretto e psicologicamente valido di simbolo: quelle produzioni simboliche, cioè, che avessero le funzioni di «intransitività semantica» e di «transitività pragmatica».