Tea for two. L’ironia nel jazz di Thelonious Monk

di Davide Sparti
«atque», 2 n.s., 2007, pp. 153- 174

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Ironia e jazz

 

‘Ironia’ è un termine difficile da applicare alla musica strumentale. Vi sono tuttavia almeno due modi di collegare il tema dell’ironia alla musica jazz. Il primo è quello dell’ironia visibile o meglio esibita, praticata a fini di intrattenimento, ben esemplificata da alcuni comportamenti da show o stage men più o meno eccentrici di Fats Wal ler, Louis Armstrong o Dizzy Gillespie. Ma come ha notato a suo tempo Adorno, dando prova delle loro doti clownesche, i musicisti (neri) rischiano di confermare il loro assoggettamento e la propria dipendenza dal pubblico bianco (Adorno ne concludeva frettolosa mente che il jazz, riflettendo la sottomissione dei neri, fosse cattiva musica, una vera e propria parodia dell’imperialismo coloniale).

Il secondo modo di collegare jazz e ironia è più complesso e rilevante in questa sede, e ha a che fare con la seguente circostanza: uno dei modi di fare jazz consiste nel ricontestualizzare la musica che si eredita dalla tradizione. Buona parte del jazz si basa infatti sulla rielaborazione di forme e brani precomposti, materiale tradizionale acquisito a cui – sebbene in modi di volta in volta diversificati, e per riattualizzarlo – si ricorre. Come ha osservato Charles Mingus in un’occasione: «You can’t improvise on nothin’, man. You gotta improvise on somethin’». Non ci si trova mai in un punto di inizio as soluto. Ci si trova piuttosto situati nel mezzo di qualcosa, e si innova dando nuove direzioni a delle linee che preesistevano.

 

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