Tempo in abbandono

di Antonino Trizzino
«atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 241-256

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Ciò che sono perdona a ciò che fui.

Paul Celan, Sudario

  

A mezzogiorno il cielo è già tutto chiuso. Sulla croce, al buio, Gesù lancia un grido: «Eloi, Eloi, lama sabactani? [Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?]». La vita, per chi sospetta di essere capitato per sbaglio in questo mondo, è dolorosa e impervia. Inutile credere che la felicità sia desiderabile. Il messaggio cristiano è chiaro: senza abbandono, nessuna garanzia di esistenza. Perché il destino dell’uomo risponde non alla necessità, ma a una decisione che lo continua. Esige una vittima.

Si potrebbe essere tentati di prendere sul serio lo stato di salute del nostro pensiero. Sarebbe un grosso errore. Malgrado le sue vita mine intellettuali, l’Occidente resta in abbandono dalla nascita: Edipo è greco e tragico, Mosè ebreo ed esiliato. La teologia cristiana parlerà di uomini abbandonati da Dio salvati dal Figlio che il Padre abbandona; nei Vangeli l’abbandono non è uno stigma tuo o mio, ma il destino di tutti gli esseri. Eppure qualcuno da fuori ci porta buone notizie. Nel Corano l’assenza di mediatori fra la creatura e il creatore prevede un’altra sfida, che non impone l’uso di chiodi che trafiggano, ma un’adesione profonda alla vita: «Ti sono più vicino della vena grande del tuo collo», Allah fa dire all’uomo. Nell’Islam il corpo è il luogo dell’incontro con Dio che ha tra i suoi nomi quello di “Vicino”. Il tempo di quell’incontro risponde a un’armonia di ritmi chiusa nello spazio dell’istante; salta il vuoto tra un istante e l’altro, ne fa un uso pulsatile.

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