Terrorismo suicida come patologia psico-sociale

di Anna Sabatini Scalmati
«atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 421-446

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dall’inatteso arriva la paura

Frammento di Archiloco, VII sec. a.C.

 

Le guerre che dilaniano le regioni del pianeta, la scienza piegata alla politica, la pervasività dell’economia e l’industria culturale e ideologica chiedono alle scienze umane di cimentarsi con una visione olistica, un sapere che superi le scissioni, le unipolarità delle posizioni manichee e si apra a situazioni extraterritoriali, al disagio della civiltà segnato dall’inquietante discontinuità prodotta dall’atomica. Di accendere una lampada che permetta al pensiero di aprirsi a una visione del pianeta abitato non da un unico uomo di dimensioni gigantesche, ma da una pluralità di esseri umani.

La parola terrorismo – dal greco tromos, ‘tremare’, ‘rabbrividire’, ‘fremere di paura’ – somma un sentimento personale, lo stato dell’individuo atterrito, con una situazione sociale. Le azioni che caratterizzano il terrorismo sono considerate dalle vittime atti di violenza stragistica, dal gruppo che li programma atti di eroismo. Per i paesi occidentali «un atto terroristico è caratterizzato dall’uso indiscriminato della violenza contro la popolazione civile con l’intento di diffondere panico e coartare un’unità politica nazionale o internazionale». L’Occidente considera «terroristi soltanto i membri di organizzazioni private e clandestine […], non i militari inquadrati negli eserciti nazionali. Qualsiasi azione attribuibile ad apparati militari di uno stato – anche la più distruttiva e sanguinaria – non è considerata terroristica».

 

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