Verso una petica dell’esistenza: l’‘umorismo’ di Pirandello

di Enrico Ghidetti
«atque», 2 n.s., 2007, pp. 49-54

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1907: Luigi Pirandello, spinto da un’emergenza di carriera – il concorso per accedere al ruolo di professore ordinario presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma – mette mano contraggenio a due libri che appariranno quasi contemporaneamente nel 1908: una raccolta di pagine critiche di diversa data (Arte e scienza, Roma, Modes) e il saggio L’Umorismo (Lanciano, Carabba), ricavato dagli appunti presi a lezione da una solerte allieva.

Il saggio reca una epigrafica dedica – «Alla buon’anima/ di/ Mattia Pascal/ bibliotecario» – che suonava irridente nei confronti del costume accademico del tempo. L’autore dedicava infatti solenne mente la propria fatica non a un ‘maestro’ e probabile protettore nelle vicissitudini concorsuali né, più semplicemente, a persona cara, ma alla memoria del protagonista del suo (fino allora) maggior suc cesso di narratore. Non si trattava però, a ben vedere, soltanto di un gesto parodico della liturgia dell’istituzione e della corporazione, ma di qualcosa di molto più serio: un tributo alla figura alfa tra i propri personaggi, e insieme l’ammissione del patto irreversibile con il personaggio che lo aveva ‘invaso’ e, sotto la tutela del quale, avrebbe percorso il suo itinerario di romanziere fino all’incontro con la figura omega di Vitangelo Moscarda.

La prima parte del saggio concede comunque ai modelli accade mici del tempo. Con procedimento già da tanti altri collaudato, Pirandello affronta preliminarmente le interpretazioni dell’“umori smo” letterario, con l’intento di dimostrarne l’insufficienza e la par zialità.

 

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