Verso una verità che ci libera dalla dipendenza?

di Sergio Benvenuto
«atque», 18-19, 1998, pp. 165-188

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  1. Kathy è un’amica cinquantenne di New York che conosco da circa trent’anni. Ogni volta che la rivedo – anche a distanza di anni – le sento raccontare più o meno la stessa storia: che è stata o sta molto male, che vive sola oppure con la madre, e che non riesce mai a sfondare nelle due professioni parallele che da venticinque anni cerca di intraprendere -l’architettura e la psicoanalisi.

Figlia unica di madre nubile, non ha mai conosciuto il padre. Quando a ventidue anni tentò di avere un contatto con lui, la madre glielo proibì drasticamente. La prima vocazione travolgente di Kathy fu l’architettura. A vent’anni lasciò la cittadina della Pennsylvania dove era nata per New York, allo scopo di diventare una grande architetta, e avere molti amanti. Invece a New York fìnì col convivere, per anni, con una artista lesbica; “non mi piacevano le donne – mi diceva- ma mi sentivo obbligata nei confronti di lei”. Ebbe come maestro un graride architetto – ma quando cominciò davvero la carriera, sprofondò in un breakdown, condito di stati allucinatori e gesti compulsivi, che nel corso dei quindici anni successivi la portò ad essere la paziente di tre ben noti e prestigiosi psicoanalisti di New York. Perché Kathy va dai migliori architetti, e dai migliori analisti. La sua lunga esperienza di analizzante la spinse a cominciare un intermihabile training come psicoanalista – che continua tuttora. Ma non ha mai rinunciato a lavorare come architetto. Risultato: è sempre all’ini zio delle due carriere. Di fatto ha vissuto soprattutto con i soldi che le passava la madre.

 

 

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